Fino a 24 anni "atipiche" il 53%, entro i 34 anni "flessibili" il 25%. Guadagnano meno dei maschi e sono costrette a scegliere tra lavoro e figli Ragazze sfruttate il doppio: una su due è precaria di Laura Eduati
All'alba del terzo millennio, le italiane si trovano a risolvere un dilemma che credevamo sepolto: lavoro o famiglia.
E quando scelgono di lavorare, trovano spesso una occupazione precaria, atipica, "instabile", basso stipendio e poche opportunità professionali.
E' precaria la metà delle ragazze dai 15 ai 24 anni e un quarto delle donne dai 25 ai 34. In totale, il 19% delle occupate, contro l'11% degli uomini. Panorama desolante, visto che soltanto il 50% delle italiane in età da lavoro svolge un'attività remunerata, la quota più bassa dell'Europa occidentale.
A distanza di un anno, appena il 14% delle precarie viene assunto stabilmente contro il 20% dei colleghi uomini. Invischiate nella palude dei co.co.pro. e delle prestazioni occasionali, le giovani preferiscono rimandare la maternità dopo i 34 anni. Peggio per le lavoratrici interinali: il 65,2% di coloro che hanno dai 30 ai 39 anni non ha figli.
E' la «questione femminile» descritta dal terzo rapporto Ires-Cgil su Donne e lavoro atipico , che dimostra come in Italia il lavoro è maschio e la precarietà è femmina. E che contraddice quanti sostengono che la flessibilità, in fondo, può aiutare le donne a conciliare lavoro e famiglia; si tratta di un inganno, il precariato è uno svantaggio per le lavoratrici poiché le spinge in basso nella scala economica, occupazionale, sociale.
Viene scelto dalle giovani in mancanza di qualcosa di meglio che poi, nel pieno della vita attiva, decidono di ritirarsi dal mercato del lavoro per seguire i figli. Oppure dalle donne adulte che, dopo la maternità, vogliono contribuire al budget famigliare con uno stipendio che però rimane risicato.
Nonostante abbiano studiato più dei maschi, le donne si ritrovano con una occupazione prevalentemente impiegatizia, di scarso livello e soltanto il 42% svolge una professione scientifica contro il 52% degli uomini. «Formalmente il tasso di disoccupazione è basso» spiega Giovanna Altieri, la presidente dell'Ires, «ma la realtà è di estrema insicurezza». E non vale nemmeno l'offerta di Berlusconi, quella di sposare un milionario: «Spesso le precarie sono già sposate con figli».
Negli ultimi anni sono aumentate le donne occupate fino a rappresentare il 39% dell'intera forza lavoro, una percentuale ancora lontana di 12 punti da quella europea.
Una delle poche note positive è la stabilizzazione delle giovani laureate, più brave dei maschi a garantirsi un lavoro fisso prima dei 30 anni.
Tuttavia nel mondo dei contratti temporanei le donne sono più numerose degli uomini e costituiscono il 15,8% delle lavoratrici contro l'11,2% degli uomini.
Se migliaia di italiane hanno trovato lavoro è merito del part-time che riguarda una donna su quattro, percentuale che arriva al 49% quando è moglie e madre di figli minorenni: una scelta probabilmente dettata dall'esigenza di conciliare lavoro e famiglia. Ma che si rivela una trappola: «Il part-time si è ridotto ad una segregazione di genere, poco remunerato e con poche possibilità di fare carriera» commenta Altieri.
Le donne "instabili" sono il 53% dei 3.400.000 precari e cioè il 19% delle donne occupate contro l'11% degli uomini. In tutte le fasce di età, il rischio di un contratto "instabile" è doppio se chi trova lavoro è una donna.
Sono maggiormente colpite le donne del Mezzogiorno con basso titolo di studio. E quando un contratto scade, spesso chi ha figli si interroga se vale la pena cercare un'altra occupazione: il 7% delle "instabili" lascia il mercato del lavoro, scoraggiata dalla difficoltà.
«Tra le donne la precarietà è più diffusa» sintetizza l'Ires, «e assume caratteri peculiari: riguarda persone relativamente più adulte ed è caratterizzata da impieghi marginali, contratti di breve durata, impegni orari limitati e imposti, minori opportunità di transizione verso occupazioni stabili».
Come se non bastasse, le donne guadagnano meno degli uomini. Molto meno. Tra gli atipici, il salario femminile è mediamente di 8615 euro l'anno, il 56% di quello maschile.
Il panorama del lavoro interinale non riserva sorprese; per le giovani è un'opportunità di inserirsi nel mercato del lavoro, per le più adulte un'occasione di tornare a guadagnare qualche cosa dopo i figli. Ma, avverte l'Ires, «il lavoro interinale non offre garanzie di una successiva collocazione stabile» bloccando stipendi e progetti di vita. Un lavoro precario blocca specialmente la nascita di un figlio: soltanto una donna su cinque tra i 25 e i 34 anni con contratto di collaborazione è madre.
Preoccupa il divario tra il Nord, dove ormai si è arrivati all'obiettivo di Lisbona con un tasso di occupazione femminile intorno al 60%, e il Sud: qui due donne su tre rinunciano al lavoro. Avere un lavoro e diventare mamme non è una contraddizione, specialmente nelle regioni settentrionali dove le donne possono contare su numerosi posti negli asili nido: la natalità è in aumento per esempio in Emilia Romagna (70% delle donne occupate), e in calo in Sicilia con il 30% delle donne occupate.
Gira e rigira, pochi meriti vanno al lavoro cosiddetto flessibile o atipico o precario che dir si voglia. Non è nemmeno un buon modo per favorire una famiglia a doppio reddito: l'uomo di casa continua ad essere il breadwinner di sempre, con le conseguenze culturali del caso. E sulla donna continua a pesare la cura della famiglia. Per Filomena Trizio, segretaria generale Nidil, «si è interrotta quella evoluzione della normativa per il lavoro femminile che fino agli anni '90 si proponeva di aiutare le donne a conciliare la famiglia col lavoro». Oggi, dice Trizio, molte donne precarie e atipiche si trovano a risolvere un «dilemma anti-storico»: perché devo continuare a lavorare se ho anche una famiglia a cui badare? Si rischia così «un arretramento culturale». La soluzione non è a portata di mano. Ma per la segretaria Nidil passa per uno sviluppo meno fragile dell'economia italiana, maggiore welfare e il contrasto alla precarietà irregolare. Poco convincente, per la Cgil, «una lotta generalista per i salari».
In realtà una misura rapida esiste, e la illustra il segretario confederale Fulvio Fammoni: dare corso alle deleghe discusse tra le parti sociali durante l'approvazione al protocollo del welfare, che incentivano il lavoro femminile e prevedono il riordino dei servizi all'impiego.




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