da Liberazione 24/12/2007
Marco Revelli
Sono del tutto d'accordo con Rossana Rossanda quando, nelle ultime righe del suo editoriale su questo stesso giornale, chiama i partiti della "grande S" a una prova di rapidità e di responsabilità. Ad "andare subito al massimo di unità d'azione", senza mollare finché non abbiano chiaro cosa (per poco che sia) li tiene - e ci tiene - assieme. E soprattutto a prendersi sul serio come passaggio, finendola di "chiuderlo ad ogni momento".
Dice proprio così: "come passaggio". E non potrebbe dirlo meglio. Perché questo significa, per come lo leggo io, che nessuno è, oggi, con la propria identità e struttura, la soluzione. E nessuna soluzione organizzativa che venga posta in essere nella transizione attuale, può essere considerata definitiva. Un passaggio non è un contenitore. Men che meno la strutturazione di un'identità già definita. E' un punto di scorrimento e di superamento. Una breccia aperta in un muro. Un "ponte", appunto, su cui transitare dal territorio politico terremotato che abbiamo di fronte (l'alluvione di cui parla Rossanda) a una forma della politica inevitabilmente altra rispetto a quella di cui subiamo e soffriamo oggi la crisi.
Nessuna, delle attuali formazioni partitiche della cosiddetta "sinistra radicale" è - io temo - da sola in grado di traghettare alcunché: rischiano di essere, ognuna presa a sé, quale più quale meno, liane sottili che pendono da rami ormai quasi secchi. E forse neppure la loro somma aritmetica (quella algebrica rischierebbe di sfiorare lo zero), la giustapposizione delle rispettive strutture organizzative, il coordinamento dei loro gruppi dirigenti, basterebbe a costituire un ponte ampio a sufficienza per sostenere l'esodo dal nostro pessimo presente. Ma il segnale offerto, l'apertura, appunto, di un varco, la dichiarazione di una volontà non ammalata di miopia e di autoreferenzialità, quello sì forse potrebbe rimettere in moto la moltitudine di soggettività che ora affondano nella palude del fallimento della sinistra politica d'inizio secolo. Riattivare un processo di elaborazione collettiva che ci restituisca la possibilità di pensare un diverso esistente possibile.
Per questo mi lasciano freddo, e dopo un po' mi infastidiscono, i capelli spaccati in quattro sulle questioni delle rispettive identità (tutte, d'altra parte, vistosamente danneggiate). E dei rispettivi confini (tutti, da tempo, diventati più porosi di quelli degli Stati nazionali). Così come mi spaventano i balli sul ponte del Titanic, a misurare le rispettive vocazioni governative o le complesse compatibilità genetiche, confondendo la legge elettorale con la legge darwiniana della selezione della specie, e guardando ognuno ai dati effimeri dei sondaggi mentre l'acqua nelle stive continua a salire. Avrei voluto che sei mesi fa, e poi subito dopo il 20 ottobre, e magari prima della discussione della finanziaria, i quattro partiti della "cosa rossa" si fossero messi d'accordo non su tutto, nemmeno sulla maggior parte delle questioni ma, che dire?, su tre, quattro punti qualificanti - magari in tema di pace e di guerra, di migranti e razzismo, di sicurezza sul lavoro e di laicità dello stato -, su cui non tornare più indietro. E su cui ricominciare il dialogo con la "loro gente", quali che fossero le reazioni di Dini o Mastella.
Questo per quanto riguarda il metodo. Per quanto riguarda invece il merito, l'editoriale di Rossanda mi lascia più dubbioso. In particolare là dove richiama un tema che da tempo viene ripetendo con tenacia: la questione della centralità del rapporto tra capitale e lavoro. L'oscuramento del ruolo e della crucialità del lavoro salariato. Intendiamoci, la questione è decisiva - l'abbiamo misurato, con dolore e disperazione, nel caso della Tyssen-Krupp -, e la sua scomparsa dall'agenda politica e finanche dal lessico del discorso pubblico è a sua volta il segno di una crisi mortale del "politico". Di una sua separazione drammatica dal "mondo della vita", come ha di recentemente affermato Fausto Bertinotti
E tuttavia, temo che non basti riaffermare che "invece il salariato non è mai stato così esteso" nel mondo e anche nelle nostre società avanzate, per superare l'impasse. Né sarebbe sufficiente che gli intellettuali, chierici traditori, ritornassero a richiamare l'analisi scientifica di Marx riparando almeno in parte al loro tradimento. L'oscuramento, temo, continuerebbe. Forse ci sentiremmo meno soli nella comunità dei dotti, ma là in basso, dove si continua a lavorare e misurare con i propri corpi la materialità del lavoro, temo che la solitudine non si attenuerebbe. Né la consapevolezza crescerebbe.
Il fatto è che, pur nella permanenza quantitativa dell'esercito del lavoro salariato, esso non produce più "soggettività" antagonistica e organizzata. Protagonismo storico. Il capitale variabile, per usare le categorie di Marx, non si fa più soggetto sociale. Rimane nella sua forma "economica" di lavoro vivo dominato dal lavoro morto. Anzi: trapassa silenziosamente, ma massicciamente, nella dimensione "oggettivata" del "capitale fisso", man mano che la vita stessa dei lavoratori, l'insieme delle loro funzioni relazionali e mentali, la totalità della loro dimensione vivente viene trasformata in mezzo di produzione. Nell'epoca in cui il capitale entra nella vita del lavoratore e se la incorpora nella sua totalità, trasformando ognuno di noi in un pezzo di capitale, e non in quello, appunto, "variabile" - la parte destinata alla riproduzione della forza-lavoro, alla remunerazione delle risorse necessarie a vivere -, ma in quello "fisso", composto un tempo dalle macchine, dai prodotti del sapere accumulato negli oggetti meccanici, e costituito, oggi, anche da sezioni delle nostre menti. Dai saperi incorporati nei nostri cervelli, e diventati parte dell'apparato cognitivo e produttivo. Dalle nostre funzioni linguistiche, con cui elaboriamo il tessuto comunicativo che fa funzionare il sistema flessibile della produzione postfordista. Delle nostre relazioni informali, diventate funzioni essenziali dell'organizzazione a rete delle imprese. Così come i nostri Tfr, i nostri salari differiti e le nostre vite future si fanno, a loro volta "capitale finanziario". E i nostri salari impegnati nel credito al consumo entrano nel circuito del capitale circolante, che ci comanda più di quanto non facesse ieri il "capo" imponendo di lavorare sempre di più per pagare le rate dei debiti, o il mutuo della casa, e comunque ciò che già abbiamo consumato...
E' questo nostro "farci capitale", con i nostri corpi e con le nostre menti, e con il nostro futuro già "impegnato", nell'epoca del capitalismo totale e personale, che rende così problematica la costituzione del lavoro salariato in soggetto antagonistico. O anche solo in identità distinta, e capace di stare nella storia e nella società come identità distinta. Che ne terremota l'identità pregressa, e ne rende così problematica la rappresentanza, e fin anche la rappresentazione. La costruzione di un racconto condiviso, in cui le diverse figure del lavoro possano riconoscersi.
Ed è per questo che mantenere aperto il "passaggio" è così importante. Perché le acque non si richiudano prima che la parola torni a farsi sentire nell'universo altrimenti muto delle cose (degli uomini trasformati in cose)
lunedì 24 dicembre 2007
La sinistra e le persone diventate cose
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