da il Manifesto 3/11/2007
Intervista a Fabrizio Tomaselli (Sindacato dei lavoratori), Piero Bernocchi (Confederazione Cobas) e Paolo Leonardi (Cub-RdB). «Questo governo guarda solo alle imprese, mai al lavoro dipendente»
Intervista a Fabrizio Tomaselli (Sindacato dei lavoratori), Piero Bernocchi (Confederazione Cobas) e Paolo Leonardi (Cub-RdB). «Questo governo guarda solo alle imprese, mai al lavoro dipendente»
Francesco Piccioni
Venerdì prossimo i sindacati di base hanno proclamato uno sciopero generale con una nutrita lista di obiettivi. Ne abbiamo parlato con i coordinatori delle tre organizzazioni maggiori: Fabrizio Tomaselli del Sindacato dei lavoratori, Piero Bernocchi (Confederazione Cobas) e Paolo Leonardi della Cub-RdB.
Quali le ragioni di uno sciopero generale in questo momento?
Tomaselli. L'idea dello sciopero è nata dopo l'accordo del 23 luglio. Si va dal no alla precarietà e all'aumento dell'età pensionabile, al diritto al lavoro e al reddito, fino alla richiesta di uguali diritti per i migranti. Ma anche per una legge sulla rappresentanza sindacale, per dire basta al monopolio di Cgil, Cisl e Uil. L'accordo del 23 luglio ha confermato tutte le norme sulla precarietà, dal pacchetto Treu alla legge 30, accantonando le promesse del «programma». Si è perciò saldata l'attuazione di leggi del governo precedente con il nuovo programma dell'attuale.
Bernocchi. Nello sciopero del 9 ci sono tre aspetti originali. Si è creato un fronte antiliberista che va oltre le sigle del sindacalismo di base, coinvolgendo i centri sociali, le lotte per la casa, gli studenti. Evita le contrapposizioni artificiose tra giovani e vecchi, tra stabili e precari; anche la contrapposizione tra diritto al lavoro e/o diritto al reddito viene superata. Infine, non è un'iniziativa «politicista». L'unità che si realizza è su contenuti precisi. E' chiaramente uno sciopero contro le politiche di questo governo. E vuole intrecciare tre grandi questioni come la guerra (le basi e le spese militari), la precarietà e la questione ambientale. Ma anche contro l'ondata repressiva che si va addensando (i processi di Genova, Cosenza e Napoli che arrivano a sentenza contemporaneamente).
Leonardi. Tornando al piano sindacale, c'è una condizione sociale pesante e drammatica. Draghi che parla delle difficoltà economiche del lavoro dipendente ufficializza il fatto che il mondo del lavoro ha perso terreno sul piano reddituale, culturale, dei diritti. Già questo basterebbe per scioperare. Ma la partita del 23 luglio non è chiusa. C'è ancora un passaggio istituzionale da fare, che lascia spazio a modifiche anche importanti. Questa è una finanziaria di piccole cifre, ma che non concede nulla al mondo del lavoro, mentre regala ancora molto alle imprese. Basti pensare ai 5 o 25 milioni per assumere i precari della pubblica amministrazione, sufficienti al massimo per 1.000 persone su 3-400mila. C'è la questione contrattuale ancora aperta, non solo per il pubblico impiego o la scuola, ma anche per il trasporto pubblico. Anche sui metalmeccanici, la mossa della «mancetta» indica debolezza nelle richieste sindacali. C'è necessità di ripresa della lotta per una nuova scala mobile e per la democrazia sindacale. Ma anche per il rilancio del sistema previdenziale pubblico. Non va dimenticato che i lavoratori, sul tfr, non si sono fatti infinocchiare.
Uno sciopero generale è impresa impegnativa. Non temete il rischio di fare un grande sforzo per qualcosa che potrebbe anche vedersi poco?
T. E' evidente che il sindacalismo di base, da solo, non ha lo stesso potere mediatico e di mobilitazione di quello confederale. Anche se sui numeri ci sarebbe spesso da ridire. Ma abbiamo l'onere e il dovere di farlo: su certi temi - come la precarietà - si è formato un «tappo» che va forzato. Ma c'è di più. Non si devono fare scioperi soltanto «contro» il governo, ma anche dare indicazioni positive. Il problema del reddito è fondamentale. La detassazione della busta paga è una presa in giro. Di solito si chiedono soldi al padrone. Così invece è una partita di giro, con Confindustria che applaude perché le imprese non ci devono mettere una lira. Mentre la riduzione della tassazione la paghiamo noi in termini di servizi sociali. Abbiamo perciò la presunzione di rivolgerci a tutti i lavoratori, perché queste valutazioni sono già condivise.
B. Questo sciopero è realistico anche nei numeri. Potrebbero partecipare due milioni di lavoratori, e 19 (o più) manifestazioni saranno un segno molto visibile. Il livello salariale è miserabile e la delusione verso questo governo è totale, specie nella difesa del lavoro dipendente. Alle imprese ha dato in un anno il triplo di quel che aveva dato loro Berlusconi. C'è un sacco di gente, magari ancora nella Cgil, che parteciperà allo sciopero perché ci vede coerenti.
L. Credo che la partecipazione sarà buona, ci sono tutte le condizioni. Abbiamo fatto decine di assemblee, non ho trovato nessuno che dicesse «non ci sono le condizioni per fare sciopero» . Serve anche per dire che la «democrazia blindata» non funziona. Lo abbiamo collocato nei giorni della discussione del collegato alla finanziaria, e quindi prova a interloquire con i tempi della politica, vuole essere «efficace». Nel trasporto pubblico ci potrebbe essere qualche sopresa, rendendo più visibile la portata delle adesioni.
L'obiettivo, dunque, è quello di incidere sulla finanziaria?
T. Anche. E' da sottolineare che nelle imprese abbiamo ristrutturazioni a iosa, un abuso di ricorsi alla cessione di ramo d'azienda. Ne consegue una frammentazione aziendale voluta, che gioca contro il contratto nazionale e l'unità del mondo del lavoro. Noi cerchiamo di ricomporre il fronte mediante la lotta.
B. In questo sciopero c'è un obiettivo che sintetizza tutti gli altri: la volontà di mantenere aperto il conflitto di classe. Un elemento non solo di resistenza, ma di prospettiva. Non pensiamo di «chiudere» con uno sciopero, ma di andare avanti con piattaforme comuni; che vedremo poi come emandare avanti.
L. Di fronte al «sindacato unico» del «partito unico» c'è da difendere l'abbozzo di pluralismo che siamo riusciti a creare. Si sta preparando una modifica profonda degli assetti sindacali. C'è fibrillazione nella Cgil, una Cisl che si propone come «il» sindacato del Partito democratico. Perciò lo sciopero, oltre a voler incidere su finanziaria e protocollo, è il segnale che esiste una forza sindacale di massa e di base all'interno di questo paese. E che la partita rimane aperta.
Quali le ragioni di uno sciopero generale in questo momento?
Tomaselli. L'idea dello sciopero è nata dopo l'accordo del 23 luglio. Si va dal no alla precarietà e all'aumento dell'età pensionabile, al diritto al lavoro e al reddito, fino alla richiesta di uguali diritti per i migranti. Ma anche per una legge sulla rappresentanza sindacale, per dire basta al monopolio di Cgil, Cisl e Uil. L'accordo del 23 luglio ha confermato tutte le norme sulla precarietà, dal pacchetto Treu alla legge 30, accantonando le promesse del «programma». Si è perciò saldata l'attuazione di leggi del governo precedente con il nuovo programma dell'attuale.
Bernocchi. Nello sciopero del 9 ci sono tre aspetti originali. Si è creato un fronte antiliberista che va oltre le sigle del sindacalismo di base, coinvolgendo i centri sociali, le lotte per la casa, gli studenti. Evita le contrapposizioni artificiose tra giovani e vecchi, tra stabili e precari; anche la contrapposizione tra diritto al lavoro e/o diritto al reddito viene superata. Infine, non è un'iniziativa «politicista». L'unità che si realizza è su contenuti precisi. E' chiaramente uno sciopero contro le politiche di questo governo. E vuole intrecciare tre grandi questioni come la guerra (le basi e le spese militari), la precarietà e la questione ambientale. Ma anche contro l'ondata repressiva che si va addensando (i processi di Genova, Cosenza e Napoli che arrivano a sentenza contemporaneamente).
Leonardi. Tornando al piano sindacale, c'è una condizione sociale pesante e drammatica. Draghi che parla delle difficoltà economiche del lavoro dipendente ufficializza il fatto che il mondo del lavoro ha perso terreno sul piano reddituale, culturale, dei diritti. Già questo basterebbe per scioperare. Ma la partita del 23 luglio non è chiusa. C'è ancora un passaggio istituzionale da fare, che lascia spazio a modifiche anche importanti. Questa è una finanziaria di piccole cifre, ma che non concede nulla al mondo del lavoro, mentre regala ancora molto alle imprese. Basti pensare ai 5 o 25 milioni per assumere i precari della pubblica amministrazione, sufficienti al massimo per 1.000 persone su 3-400mila. C'è la questione contrattuale ancora aperta, non solo per il pubblico impiego o la scuola, ma anche per il trasporto pubblico. Anche sui metalmeccanici, la mossa della «mancetta» indica debolezza nelle richieste sindacali. C'è necessità di ripresa della lotta per una nuova scala mobile e per la democrazia sindacale. Ma anche per il rilancio del sistema previdenziale pubblico. Non va dimenticato che i lavoratori, sul tfr, non si sono fatti infinocchiare.
Uno sciopero generale è impresa impegnativa. Non temete il rischio di fare un grande sforzo per qualcosa che potrebbe anche vedersi poco?
T. E' evidente che il sindacalismo di base, da solo, non ha lo stesso potere mediatico e di mobilitazione di quello confederale. Anche se sui numeri ci sarebbe spesso da ridire. Ma abbiamo l'onere e il dovere di farlo: su certi temi - come la precarietà - si è formato un «tappo» che va forzato. Ma c'è di più. Non si devono fare scioperi soltanto «contro» il governo, ma anche dare indicazioni positive. Il problema del reddito è fondamentale. La detassazione della busta paga è una presa in giro. Di solito si chiedono soldi al padrone. Così invece è una partita di giro, con Confindustria che applaude perché le imprese non ci devono mettere una lira. Mentre la riduzione della tassazione la paghiamo noi in termini di servizi sociali. Abbiamo perciò la presunzione di rivolgerci a tutti i lavoratori, perché queste valutazioni sono già condivise.
B. Questo sciopero è realistico anche nei numeri. Potrebbero partecipare due milioni di lavoratori, e 19 (o più) manifestazioni saranno un segno molto visibile. Il livello salariale è miserabile e la delusione verso questo governo è totale, specie nella difesa del lavoro dipendente. Alle imprese ha dato in un anno il triplo di quel che aveva dato loro Berlusconi. C'è un sacco di gente, magari ancora nella Cgil, che parteciperà allo sciopero perché ci vede coerenti.
L. Credo che la partecipazione sarà buona, ci sono tutte le condizioni. Abbiamo fatto decine di assemblee, non ho trovato nessuno che dicesse «non ci sono le condizioni per fare sciopero» . Serve anche per dire che la «democrazia blindata» non funziona. Lo abbiamo collocato nei giorni della discussione del collegato alla finanziaria, e quindi prova a interloquire con i tempi della politica, vuole essere «efficace». Nel trasporto pubblico ci potrebbe essere qualche sopresa, rendendo più visibile la portata delle adesioni.
L'obiettivo, dunque, è quello di incidere sulla finanziaria?
T. Anche. E' da sottolineare che nelle imprese abbiamo ristrutturazioni a iosa, un abuso di ricorsi alla cessione di ramo d'azienda. Ne consegue una frammentazione aziendale voluta, che gioca contro il contratto nazionale e l'unità del mondo del lavoro. Noi cerchiamo di ricomporre il fronte mediante la lotta.
B. In questo sciopero c'è un obiettivo che sintetizza tutti gli altri: la volontà di mantenere aperto il conflitto di classe. Un elemento non solo di resistenza, ma di prospettiva. Non pensiamo di «chiudere» con uno sciopero, ma di andare avanti con piattaforme comuni; che vedremo poi come emandare avanti.
L. Di fronte al «sindacato unico» del «partito unico» c'è da difendere l'abbozzo di pluralismo che siamo riusciti a creare. Si sta preparando una modifica profonda degli assetti sindacali. C'è fibrillazione nella Cgil, una Cisl che si propone come «il» sindacato del Partito democratico. Perciò lo sciopero, oltre a voler incidere su finanziaria e protocollo, è il segnale che esiste una forza sindacale di massa e di base all'interno di questo paese. E che la partita rimane aperta.
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