da il Manifesto 28/09/2007
La Rete 28 Aprile attacca l'accordo del 23 luglio, e definisce «opache» le modalità del referendum. Passoni (Cgil): «Insinuazioni che offendono la democrazia»
s.f.
Roma
«Un accordo che recepisce tutta la legislazione del lavoro del governo Berlusconi..Un Patto per l'Italia insomma, firmato da tutti e tre i sindacati». Senza mezzi termini, Giorgio Cremaschi denuncia i contenuti dell'accordo su pensioni, welfare e competitività siglato tra governo e parti sociali, ora in attesa del voto dei lavoratori. Punto per punto, sulle questioni di merito, non tralasciando le «opacità del metodo». Cremaschi, esponente della segreteria nazionale Fiom, parla da leader della Rete 28 Aprile, area di sinistra in Cgil, che raccoglie il 3% del direttivo confederale. Nelle assmblee rispetterà il regolamento, dice, «ma si tratta di regole che non condividiamo, ma subiamo». E annuncia, subito dopo il referendum, una «campagna di democratizzazione del sindacato, a cui la Rete 28 Aprile dedicherà le sue forze».
Del protocollo, Cremaschi non salva nulla. L'accordo del 23 luglio non elimina lo «scalone» e, con l'introduzione di finestre che prima non c'erano, peggiora le pensioni di vecchiaia anche per le donne. Non risolve neppure, l'accordo, il problema dei lavori usuranti contingentati nel numero di 5 mila all'anno, 50 mila in dieci anni, dai quali restano esclusi tra l'altro gli operai di aziende chimiche o siderurgiche che magari arrivano a 60 turni notturni (fuori dunque dagli 80 con i quali si viene riconosciuti «usurati»).
Sulla questione dei coefficienti di trasformazione, previsti dalla legge Dini del 1995, non è vero - dice Cremaschi - che, per le pensioni dei giovani, verrà garantito il 60% del salario. L'unica cosa certa è che dal 2010 in poi (ogni tre anni) la revisione dei coefficienti sarà «automatica», e non concordata con i sindacati come la Dini prevedeva: da qui al 2016 le pensioni dei «giovani» verranno decurtate dell'11%.
E ancora, tutte le questioni del mercato del lavoro. Dalla conferma delle leggi sulla precarietà del lavoro (il rinnovo, di fatto «all'infinito», dei contratti a termine, nessun limite all'uso di contratti a progetto) alle misure per la competitività, che favoriscono la flessibilità e l'incertezza dei salari oltre ad aumentare l'orario di lavoro. Non ha dubbi Cremaschi, al referendum «bisogna votare no».
Se non ci fosse stata «fibrillazione» per il governo, dice, i sindacati non avrebbero firmato. «Con l'ultima Finanziaria il cuneo fiscale ha portato nelle tasche delle imprese 7 miliardi, 70 in dieci anni, dal lavoro dipendente sono invece arrivati, come aumento dei contributi 4 miliardi l'anno, 40 in dieci anni: il risultato che arriva ai lavoratori sono 12 miliardi in dieci anni, per il miglioramento delle pensioni minime». Insomma, conclude, anche quel briciolo di solidarietà che c'è, «ce lo paghiamo tutto noi, con l'aumento dei contributi per i lavoratori dipendenti e per i precari».
Infine, il referendum. «Se le regole della consultazione fossero paritarie, senza il peso degli apparati e della struttura sindacale, probabilmente vincerebbe vincerebbe il no». Ma così non è, secondo Cremaschi, che parla di urne, in alcuni territori, già aperte. Registrando su questo terreno la reazione del segretario confederale Cgil, Achille Passoni: «Insinuare dubbi sulla trasparenza del confronto e del voto dei lavoratori e dei pensionati è inaccettabile, inquina la democrazia e offende migliaia di donne e uomini».
Del protocollo, Cremaschi non salva nulla. L'accordo del 23 luglio non elimina lo «scalone» e, con l'introduzione di finestre che prima non c'erano, peggiora le pensioni di vecchiaia anche per le donne. Non risolve neppure, l'accordo, il problema dei lavori usuranti contingentati nel numero di 5 mila all'anno, 50 mila in dieci anni, dai quali restano esclusi tra l'altro gli operai di aziende chimiche o siderurgiche che magari arrivano a 60 turni notturni (fuori dunque dagli 80 con i quali si viene riconosciuti «usurati»).
Sulla questione dei coefficienti di trasformazione, previsti dalla legge Dini del 1995, non è vero - dice Cremaschi - che, per le pensioni dei giovani, verrà garantito il 60% del salario. L'unica cosa certa è che dal 2010 in poi (ogni tre anni) la revisione dei coefficienti sarà «automatica», e non concordata con i sindacati come la Dini prevedeva: da qui al 2016 le pensioni dei «giovani» verranno decurtate dell'11%.
E ancora, tutte le questioni del mercato del lavoro. Dalla conferma delle leggi sulla precarietà del lavoro (il rinnovo, di fatto «all'infinito», dei contratti a termine, nessun limite all'uso di contratti a progetto) alle misure per la competitività, che favoriscono la flessibilità e l'incertezza dei salari oltre ad aumentare l'orario di lavoro. Non ha dubbi Cremaschi, al referendum «bisogna votare no».
Se non ci fosse stata «fibrillazione» per il governo, dice, i sindacati non avrebbero firmato. «Con l'ultima Finanziaria il cuneo fiscale ha portato nelle tasche delle imprese 7 miliardi, 70 in dieci anni, dal lavoro dipendente sono invece arrivati, come aumento dei contributi 4 miliardi l'anno, 40 in dieci anni: il risultato che arriva ai lavoratori sono 12 miliardi in dieci anni, per il miglioramento delle pensioni minime». Insomma, conclude, anche quel briciolo di solidarietà che c'è, «ce lo paghiamo tutto noi, con l'aumento dei contributi per i lavoratori dipendenti e per i precari».
Infine, il referendum. «Se le regole della consultazione fossero paritarie, senza il peso degli apparati e della struttura sindacale, probabilmente vincerebbe vincerebbe il no». Ma così non è, secondo Cremaschi, che parla di urne, in alcuni territori, già aperte. Registrando su questo terreno la reazione del segretario confederale Cgil, Achille Passoni: «Insinuare dubbi sulla trasparenza del confronto e del voto dei lavoratori e dei pensionati è inaccettabile, inquina la democrazia e offende migliaia di donne e uomini».
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