da il Manifesto 28/07/2007
Gli interessi della multinazionale francese dell'energia dietro la riluttanza di Sarkozy e dell'Unione a prendere seri provvedimenti contro i generali
A. D'A.
Bruxelles
L'Europa, al pari del mondo, ha ri-scoperto la repressione in Birmania, vecchia di 45 anni. Il problema è che la stessa Ue, al pari degli Usa, continua a dimenticare che anche le sue imprese aggirano l'embargo imposto al paese.
Ieri, praticamente all'unanimità, il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione che condanna l'operato del governo militare di Yangon mentre sostiene con forza l'azione dei dimostranti. Strasburgo, si legge nel testo, «plaude alla coraggiosa azione dei monaci birmani e di decine di migliaia di altri manifestanti pacifici contro il regime antidemocratico e repressivo al potere in Birmania».
Il testo, rivisto poco prima del voto per raccogliere anche gli ultimissimi avvenimenti, riprende «l'orrore per l'uccisione di manifestanti pacifici, insiste affinché le forze di sicurezze rientrino nelle caserme e chiede che sia riconosciuta la legittimità delle richieste che vengono avanzate e che siano rilasciati i manifestanti arrestati ed altri prigionieri politici».
Con i monaci ed il popolo birmano si schierano anche la Commissione e i 27. Gli ambasciatori dei governi europei ieri mattina hanno dato mandato alla Presidenza portoghese e ai gruppi competenti di studiare come rafforzare il sistema sanzionatorio già in vigore da anni contro il regime militare di Rangoon. Quello delle sanzioni è un punto sottolineato anche dal Parlamento, ma è anche il punto debole dell'Europa. Da Bruxelles e Strasburgo si sottolineano i traffici di Cina ed India con il regime, che hanno reso inefficace il decennale embargo, ma si dimenticano le titubanze e le ipocrisie Made in Eu, soprattutto Made in France.
Secondo la Fidh, la Federazione internazionale dei diritti umani, la francese Total, in cooperazione con la statunitense Chevron Texaco, è il principale partner commerciale della giunta militare. L'impresa francese apporta il 7% del bilancio del regime in cambio dell'accordo per lo sfruttamento esclusivo del giacimento di gas di Yadana e del gasdotto che trasporta il gas fino in Tailandia. E proprio per questo gasdotto che la Total e l'Unocal, acquisita poi dalla Chevron, sono finite sotto giudizio per lavoro forzato: gli appalti venivano gestiti in loco da imprese di familiari dei generali che obbligavano la popolazione a lavorare ricorrendo alla forza. Per fugare le accuse, la Total nel 2003 chiede un rapporto sulla sua filiale birmana ad un ufficio di consulenze dal nome curioso Bk Conseil.
Il lavoro, ricambiato con 25.000 euro, arriva ad affermare in maniera chiara e forte che le accuse di schiavitù erano delle «fantasie». Delle fantasie che hanno però un prezzo, visto che nel novembre 2005 la Total si affretta ad indennizzare otto birmani ed a finanziare una pseudo Ong, il tutto in cambio del ritiro della denuncia.
La cosa più curiosa è che dietro alla Bk Conseil si nasconde Bernard Kouchner, attuale ministro degli esteri di Francia, paese che presiede attualmente il Consiglio di sicurezza dell'Onu. E non è quindi un caso che Parigi stia mantenendo in questi giorni una posizione quanto meno ambigua. Mercoledì Sarkozy aveva lanciato un appello alle imprese francesi, ed in particolare alla Total, perché evitino nuovi investimenti in Birmania.
La Total rispondeva picche, che non se ne parlava. Di fronte al rifiuto, era il governo ad abbassare i toni. Ieri il segretario di Stato ai diritti umani Rama Yade ha infatti addolcito quanto detto dal suo Presidente: «Il fatto che Total sia presente in Birmania non ha mai impedito all'Ue di proporre e rendere effettive le sue sanzioni».
Difatti non hanno mai funzionato, tanto che ora i 27 pensano «a rafforzarle e renderle più efficaci». Già prima di lei era però intervenuto Kouchner, assicurando che le attività della Total non sono «contrarie» alle misure decretate dalla Ue contro la Birmania. E dire che il gas non rappresenta solo la principale entrata per il regime, ma anche la sua base di potere. Un sistema di oppressione oliato con la complicità economica di Total, Chevron Texaco, della tailandese Pttep, della malese Petronas, della giapponese Nippon Oil mentre Cina ed India sono interessate alle riserve inesplorate, su cui punta anche la coreana Daewoo.
Ieri, praticamente all'unanimità, il Parlamento europeo ha approvato una risoluzione che condanna l'operato del governo militare di Yangon mentre sostiene con forza l'azione dei dimostranti. Strasburgo, si legge nel testo, «plaude alla coraggiosa azione dei monaci birmani e di decine di migliaia di altri manifestanti pacifici contro il regime antidemocratico e repressivo al potere in Birmania».
Il testo, rivisto poco prima del voto per raccogliere anche gli ultimissimi avvenimenti, riprende «l'orrore per l'uccisione di manifestanti pacifici, insiste affinché le forze di sicurezze rientrino nelle caserme e chiede che sia riconosciuta la legittimità delle richieste che vengono avanzate e che siano rilasciati i manifestanti arrestati ed altri prigionieri politici».
Con i monaci ed il popolo birmano si schierano anche la Commissione e i 27. Gli ambasciatori dei governi europei ieri mattina hanno dato mandato alla Presidenza portoghese e ai gruppi competenti di studiare come rafforzare il sistema sanzionatorio già in vigore da anni contro il regime militare di Rangoon. Quello delle sanzioni è un punto sottolineato anche dal Parlamento, ma è anche il punto debole dell'Europa. Da Bruxelles e Strasburgo si sottolineano i traffici di Cina ed India con il regime, che hanno reso inefficace il decennale embargo, ma si dimenticano le titubanze e le ipocrisie Made in Eu, soprattutto Made in France.
Secondo la Fidh, la Federazione internazionale dei diritti umani, la francese Total, in cooperazione con la statunitense Chevron Texaco, è il principale partner commerciale della giunta militare. L'impresa francese apporta il 7% del bilancio del regime in cambio dell'accordo per lo sfruttamento esclusivo del giacimento di gas di Yadana e del gasdotto che trasporta il gas fino in Tailandia. E proprio per questo gasdotto che la Total e l'Unocal, acquisita poi dalla Chevron, sono finite sotto giudizio per lavoro forzato: gli appalti venivano gestiti in loco da imprese di familiari dei generali che obbligavano la popolazione a lavorare ricorrendo alla forza. Per fugare le accuse, la Total nel 2003 chiede un rapporto sulla sua filiale birmana ad un ufficio di consulenze dal nome curioso Bk Conseil.
Il lavoro, ricambiato con 25.000 euro, arriva ad affermare in maniera chiara e forte che le accuse di schiavitù erano delle «fantasie». Delle fantasie che hanno però un prezzo, visto che nel novembre 2005 la Total si affretta ad indennizzare otto birmani ed a finanziare una pseudo Ong, il tutto in cambio del ritiro della denuncia.
La cosa più curiosa è che dietro alla Bk Conseil si nasconde Bernard Kouchner, attuale ministro degli esteri di Francia, paese che presiede attualmente il Consiglio di sicurezza dell'Onu. E non è quindi un caso che Parigi stia mantenendo in questi giorni una posizione quanto meno ambigua. Mercoledì Sarkozy aveva lanciato un appello alle imprese francesi, ed in particolare alla Total, perché evitino nuovi investimenti in Birmania.
La Total rispondeva picche, che non se ne parlava. Di fronte al rifiuto, era il governo ad abbassare i toni. Ieri il segretario di Stato ai diritti umani Rama Yade ha infatti addolcito quanto detto dal suo Presidente: «Il fatto che Total sia presente in Birmania non ha mai impedito all'Ue di proporre e rendere effettive le sue sanzioni».
Difatti non hanno mai funzionato, tanto che ora i 27 pensano «a rafforzarle e renderle più efficaci». Già prima di lei era però intervenuto Kouchner, assicurando che le attività della Total non sono «contrarie» alle misure decretate dalla Ue contro la Birmania. E dire che il gas non rappresenta solo la principale entrata per il regime, ma anche la sua base di potere. Un sistema di oppressione oliato con la complicità economica di Total, Chevron Texaco, della tailandese Pttep, della malese Petronas, della giapponese Nippon Oil mentre Cina ed India sono interessate alle riserve inesplorate, su cui punta anche la coreana Daewoo.
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