martedì 4 marzo 2008

Calearo, l'impresa al centro del sistema

di Gabriele Polo

«Il male dell'Italia è la politica romana, la sua corruzione. I partiti e i politici perseguono solo il proprio interesse, non quello del paese». Non lo ha detto Massimo Giannini nel 1948, né Beppe Grillo nel 2007; è l'opinione di Massimo Calearo, espressa pari pari in un dibattito a Reggio Emilia, pochi mesi fa. Forse adesso ha cambiato idea, o forse ha deciso di cambiarla lui la politica. Un po' come ha fatto con la sua carta d'identità, quando, per assomigliare un po' di più al suo grande amico Montezemolo, ha pensato di aggiungersi un cognome - quello materno, Ciman - che fa tanto nobiltà.
Quella del presidente di Federmeccanica è una candidatura perfetta per il partito di Veltroni. Contiene in sé tutte le caratteristiche dell'Italia «moderna», del «paese da cambiare» che segna la rimonta elettorale del Pd. Magari farà perdere un po' di voti operai, vista la durezza padronale del Calearo Ciman, ma conta di più il messaggio che l'industriale di Vicenza porta con sé: l'interesse dell'impresa e la politica al suo servizio, perché l'impresa fa il bene del paese.

Chi meglio di un padroncino veneto (che potrebbe far riavere a Vicenza una poltrona ministeriale come ai bei tempi di Rumor) può incarnare quest'idea? Nessuno. Se poi, così si compiace Montezemolo, tanto meglio.
Con Massimo Calearo Ciman il «partito omnibus» assume sempre più le fattezze di un grande contenitore che, annullando le differenze di classe, mette l'impresa al centro. L'impresa come comunità che non prevede il conflitto (esattamente come la politica veltroniana), in cui imprenditori e dipendenti perseguono lo stesso comune interesse. Nello stesso spirito con cui il presidente di Federmeccanica ha condotto (da lontano, visto che non ci andava quasi mai) le trattative per i contratti nazionali dei metalmeccanici: la gestione delle relazioni sociali subordinate ai bilanci aziendali. Tradotto in politica comporta un salto di qualità rispetto all'ormai consolidata filosofia del lavoro come «variabile dipendente». Significa frammentazione di condizione e diritti del lavoro in una geografia che cancella l'unicità del contratto nazionale e demanda alle aziende - ai loro bilanci - la vita di ciascun lavoratore. Il suo lavoro e il suo salario, ma non solo. Perché nell'aziendalizzazione dell'Italia c'è spazio (privato) per tutto, dalla pensione alla salute, dagli asili nido ai consumi, Ma solo per i «collaboratori» delle imprese che tirano. Come nell'800, o giù di lì.

da "il manifesto" 03/03/08

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