domenica 10 febbraio 2008

Assemblea operaia. Il nodo del lavoro, per un impegno a tutto campo



La relazione di Maurizio Zipponi, Responsabile Area Lavoro Economia della segreteria nazionale del Prc

Abbiamo scelto il silenzio per ricordare i lavoratori della ThyssenKrupp e con loro tutti quelli che sono stati uccisi nelle fabbriche, nei cantieri, nei porti, sulle strade, nelle campagne.
Ma non vogliamo accettare in silenzio un lavoro che uccide: dopo il tragico primato del 2007, dal primo gennaio ad oggi la guerra sul lavoro ha già prodotto 108 vittime e 2.708 invalidi.

C’è qualcosa che non va in un paese dove l’impresa può permettersi di considerare la morte come elemento strutturale, come evento naturale e irrilevante.

C’è qualcosa che non va in un paese dove il lavoro è considerato costo da abbattere, non risorsa da valorizzare.
Non è questo il paese che vogliamo.

Non è un caso se oggi abbiamo scelto di incontrarci davanti ai cancelli della ThyssenKrupp per discutere di lavoro: quello operaio, dei call center, dell’agricoltura, dell’industria e dell’edilizia, del pubblico impiego e dei servizi, delle false partite iva, quello precario.

Non è un caso perchè nella storia dell’acciaieria torinese, in quello che lì è accaduto, c’è tutto ciò contro cui ci battiamo.
C’è una grande fabbrica, dove il lavoro è fatica e la paga è miseria.
C’è una potente multinazionale, che decide di spostare altrove l’attività e di chiudere lo stabilimento.
C’è la notte, che non è fatta per lavorare.
Ci sono dodici ore consecutive in fabbrica e l’assenza delle più elementari misure di sicurezza.
Ci sono sette lavoratori uccisi e il dolore, la rabbia di chi resta.
Poi c’è l’atteggiamento sprezzante dell’impresa, il tentativo scientifico di trasformare le vittime in colpevoli.

Altro che “errore umano“, altro che “triste fatalità“: la strage alla ThyssenKrupp non ha nulla di casuale – a meno di non ritenere casuali le oltre cento violazioni delle norme di sicurezza che sono state certificate - e i responsabili di quanto è accaduto sono i vertici dell’impresa.
Nel nostro paese per chi è accusato di omicidio è previsto il carcere.
L’articolo 104 della Costituzione recita: “La magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere”.
Abbiamo sempre difeso come un valore l’autonomia della magistratura, anche di recente in Parlamento, quando è stato il Signor Mastella ad attaccarla per motivi del tutto personali.
Oggi chiediamo alla magistratura di rispettare i lavoratori.

Perché non sono in carcere, in attesa di un giusto processo, i responsabili degli omicidi alla ThyssenKrupp e negli altri luoghi di lavoro?
Perchè la vita di un operaio, di un edile, di un portuale ha meno valore della vita di altri?
Forse perchè in Italia, quando varchi i cancelli, fisici o virtuali, dei luoghi di lavoro entri in un altro Stato dove nessun diritto è garantito, neppure quello primario alla vita.

La ThyssenKrupp è la drammatica metafora di un mondo parallelo.
Nel 2007 oltre mille persone hanno superato i confini di questo mondo e non sono tornate indietro.

C’è chi poi, e sono le lavoratrici e i lavoratori migranti, non fa parte di nessuno dei due mondi: sta nel mondo del lavoro senza alcun diritto, sta nel mondo “civile“ senza alcun diritto (meno che mai quello di voto). I migranti sono la rappresentazione fisica di una realtà aberrante: schiavi nel lavoro e schiavi nella vita.

Nel 2006 abbiamo accettato la sfida del governo per cambiare questo stato di cose.

Nessuno poteva pensare, in poco tempo, di recuperare la sconfitta storica della sinistra e del movimento dei lavoratori che inizia nel 1980 (proprio qui a Torino, davanti ai cancelli della Fiat). Nei venti mesi che abbiamo alle spalle abbiamo provato, sinceramente e con tutte le nostre forze, a introdurre elementi di cambiamento.
Ci abbiamo provato in Parlamento, sul territorio, stando dentro i conflitti, avanzando proposte e ingaggiando battaglie per sostenerle.
Su alcuni punti abbiamo ottenuto parziali ma significativi risultati: la legge italiana sulla sicurezza approvata di recente è, paradossalmente, una delle migliori d’Europa e la lotta al lavoro nero è stata fatta davvero, tanto che sono comparsi oltre 200.000 edili di cui prima non c’era traccia.

Senza nulla togliere a ciò che abbiamo ottenuto, dobbiamo dirci la verità: non siamo riusciti a spostare i rapporti di forza nei luoghi di lavoro e nel paese.
Non siamo riusciti a intervenire nel nucleo attorno a cui tutto ruota, quello che neppure il sindacato riesce più a scalfire: le condizioni di lavoro e la distribuzione della ricchezza prodotta.
Non siamo riusciti a consegnare ai lavoratori un po’ di potere in più dentro le imprese e resta la precarietà, nel lavoro e nella vita.

Quando in questi mesi, sulle grandi questioni, si sono misurate le forze in campo, hanno vinto i poteri forti e la mediazione finale non ha segnato un cambiamento di direzione a favore dei lavoratori.
Anche perchè, non dobbiamo nasconderlo, spesso è mancato l’unico elemento in grado di scompaginare le carte: il conflitto sociale.

E’ significativa, da questo punto di vista, la vicenda del protocollo su pensioni, welfare, mercato del lavoro e competitività.
L’assenza di un coinvolgimento reale delle lavoratrici e dei lavoratori per sostenere, anche con la lotta, una piattaforma diversa da quella di Confindustria ha segnato indiscutibilmente le conclusioni dell’accordo.
Dobbiamo riconoscere il nostro limite. Questo limite indica l’agenda, la nuova fase.
Una nuova fase che per noi non è iniziata con la crisi di governo, ma si è aperta a fine anno, quando il segretario del Prc ha dichiarato alla Camera che il nostro partito avrebbe votato la fiducia al governo sul welfare non certo per vincolo di maggioranza o per coerenza con il programma dell’Unione, visto che l’uno e l’altro erano stati violati da un insostenibile intervento di Confindustria e delle forze centriste, ma per responsabilità sociale verso i pochi risultati positivi contenuti nell’accordo e per evitare che ci fossero lavoratori che dal 1 gennaio 2008 dovessero immediatamente lavorare tre anni in più.

Subito dopo il voto di fiducia abbiamo chiesto la verifica di governo sulla base di una nuova agenda che avesse al centro il risarcimento sociale, il miglioramento dei salari dei lavoratori, la lotta alla precarietà anche come elemento di competitività del sistema oltre che come diritto dei lavoratori.
Avremmo deciso sulla base delle risposte se restare al Governo oppure dichiarare chiusa la nostra esperienza.
Prima che si potesse avviare la verifica e applicare l’articolo 1 della finanziaria, secondo il quale l’extragettito doveva essere distribuito ai lavoratori dipendenti per affrontare l’emergenza salariale, e mentre si scatenava il pesante attacco alla laicità dello Stato e poi alla legge 194, il centro moderato dell’Unione ha fatto cadere il Governo.
Questo esito ha all’origine la nascita del Partito Democratico, la sua scelta (fatta ben prima della fine del Governo Prodi) di presentarsi da solo alle elezioni e di sostenere un referendum che porterebbe al bipartitismo all’americana.
Come partiti della Sinistra avevamo predisposto una piattaforma comune per la verifica con il Governo. I contenuti di quella piattaforma restano serie proposte politiche per cui battersi, in particolare per affrontare la gigantesca questione salariale del lavoro dipendente, tanto più oggi, con il forte extragettito derivato dalla lotta all’evasione. L’attuale Governo Prodi lo può fare, perché questo è scritto nella finanziaria, così come può dare attuazione a decreti sulla sicurezza e sui lavori usuranti.
Sfidiamo il Partito Democratico a fare subito, qui ed ora, ciò che è possibile per i lavoratori dipendenti.
E’ necessario istituire la detrazione di imposta per il lavoro dipendente e le pensioni, introdurre la restituzione del fiscal drag e la detassazione degli aumenti derivanti dai contratti nazionali di lavoro.

E’ poi necessario introdurre un sistema automatico e annuale di recupero del potere d’acquisto dei salari e, contemporaneamente, aumentare al 20% la tassazione delle rendite finanziarie, come negli altri paesi d’Europa.
C’è poi una questione sulla quale abbiamo elaborato una nostra proposta: la necessità di intervenire, attraverso l’erogazione di un reddito sociale, a favore di chi oggi è precario e percepisce meno di 8.500 euro all’anno perché possa raggiungere almeno quella cifra.
Sulla precarietà sono stati scritti fiumi di parole: bisogna cominciare a limitarla. Per questo chiediamo che dopo 36 mesi di lavoro precario (a qualunque titolo, presso un'azienda o un ente) i lavoratori vengano assunti a tempo indeterminato.

L’orario di lavoro è un altro nodo nevralgico. E’ proprio sulla sua gestione unilaterale che puntano le imprese. E allora è il caso di definire per legge l’orario massimo di lavoro giornaliero, settimanale e mensile.
Oltre alla perdita progressiva del potere d’acquisto dei salari (stimata in 1.900 euro, dal 2002 ad oggi) a peggiorare la vita delle lavoratrici e dei lavoratori è intervenuta la riduzione dello stato sociale, l’incremento vertiginoso degli affitti, lo scandaloso lievitare dei mutui.
Sarebbe una presa in giro aumentare le retribuzioni e poi costringere i lavoratori ad “acquistare” dai privati servizi primari (a partire dalla sanità) ed a spendere per la casa gran parte del salario.
Ecco perché è necessario anzitutto aumentare la disponibilità di alloggi pubblici e finanziare un piano nazionale per la casa (su questo erano stati fatti timidi passi avanti).

Sul grande nodo dell’ambiente e dello sviluppo, che segna il punto di contatto tra movimento dei lavoratori e movimento ecologista, le proposte avanzate partono dal presupposto, ormai evidente, della finitezza delle risorse e, quindi, indicano come unica via possibile l’investimento sull’innovazione, sulla ricerca, sulla formazione permanente.

A gennaio, tra il voto di fiducia sul welfare e la crisi di governo è accaduto un fatto emblematico: i metalmeccanici hanno siglato una ipotesi di accordo per il rinnovo del contratto nazionale di lavoro.
Non voglio entrare nel merito dei contenuti dell’ipotesi: i metalmeccanici hanno scelto come prassi la democrazia e saranno i lavoratori e decidere con il voto se accettare o meno la mediazione raggiunta.
C’è una cosa, però, che voglio dire: quell’ipotesi di accordo, nel bene o nel male, è frutto di un conflitto.
Ci sono state 50 ore si sciopero, centinaia di presidi delle aziende, mobilitazioni sul territorio. C’è stato anche il tentativo del progressista Illy di denunciare i lavoratori che manifestavano sulle strade.
I metalmeccanici, con la loro pratica partecipativa e democratica, hanno detto all’impresa “siamo in due”.
“Siamo in due” significa affermare una soggettività altra dall’impresa, portatrice di bisogni, esigenze, rivendicazioni contrapposte a quelle dell’impresa.
Proviamo a immaginare lo scenario se l’ipotesi di contratto dei metalmeccanici non fosse stata siglata domenica 20 gennaio.
Lunedì 21 le aziende avrebbero elargito unilateralmente aumenti salariali in busta paga, tentando così di rompere il fronte delle lotte e di dimostrare che il sindacato è inutile tanto quanto è inutile il contratto nazionale.
Martedì 22 c’è stata la crisi di governo. Venerdì 24 il governo è caduto.
In questo paese, per un lungo periodo, non ci sarebbe stato più il contratto nazionale di lavoro. Non quello dei metalmeccanici, il contratto nazionale di lavoro di tutte le categorie (sono circa 6 milioni i lavoratori ancora in attesa del rinnovo: dal pubblico impiego, al commercio, ai giornalisti).
Questo mi porta a dire che i comportamenti, le coerenze, la tenacia nel “provarci” influiscono sugli eventi. Non è vero che è già tutto scritto. Non è vero che è già scritta la sconfitta. Non è vero che non si possono ottenere risultati anche quando i rapporti di forza sono sfavorevoli.
Le vicende degli ultimi mesi impongono una riflessione anche sul movimento sindacale, pur nel rispetto della reciproca autonomia.
Non possiamo più nascondere una crisi di “sindacalizzazione” nel paese, intendendo per sindacalizzazione non il numero delle tessere, ma il senso e lo scopo dell’appartenenza di un lavoratore a una organizzazione collettiva.
Si è rotta la concatenazione logica che la storia ci ha consegnato: mi organizzo in un sindacato, avanzo rivendicazioni, agisco, produco conflitto, miglioro le mie condizioni attraverso un contratto nazionale o aziendale. Tanto è vero che oggi, a differenza che nel passato, anche chi lavora spesso non riesce a superare la soglia di povertà e a costruirsi un’esistenza autonoma, basta guardare la busta paga dell’apprendista di un pastificio: 177 ore di lavoro al mese per 494 euro di stipendio.
Da un po’ di tempo gli accordi firmati addirittura derogano a diritti già acquisiti e, quindi, bene che vada, limitano i danni ma non contengono nuovi diritti, non contengono elementi di cambiamento positivi per i lavoratori.
La perdita di senso, la perdita di identità, la sfiducia nell’agire collettivo sono ciò che si raccoglie nei luoghi di lavoro: “Siete tutti uguali, politici e sindacalisti e noi ci dobbiamo arrangiare da soli”
Ecco dove fa breccia l’operazione dell’imprenditore Della Valle, ossia l’elargizione unilaterale di denaro: il lavoratore si affida all’impresa, perché è l’impresa che gli da pochi, sporchi soldi subito.
Questo fa saltare qualunque schema conosciuto e rende stucchevole la discussione sul nuovo modello contrattuale: contratto nazionale? contrattazione di secondo livello?
Siamo oltre. Per la sinistra e le organizzazioni sindacali il pericolo è massimo. Ad aprile si andrà ad elezioni, se dalle urne scaturirà un governo di centro destra questo pericolo si tradurrà in realtà, prendendo a pugni in faccia chi oggi non vuole riconoscere questa cruda realtà.
Per quanto ci riguarda, il contratto nazionale va difeso per la sua valenza universale, ma dobbiamo rispondere a chi lo vuole demolire.
Allora perché non pensare a tre grandi contratti nazionali (uno per l’industria, uno per il pubblico impiego, uno per i servizi) e ad un contratto europeo che stabilisca, su salario e orario di lavoro, soglie minime sotto le quali non è possibile andare, in modo da impedire la concorrenza al ribasso tra lavoratori?
In questo scenario, fermo restando il contratto nazionale, va benissimo la contrattazione di secondo livello (aziendale o territoriale) purché sia ovunque, purché sia pratica obbligatoria ed esigibile, altrimenti diventa neocorporativa.
Questo significa riattivare energie e partecipazione (nei luoghi di lavoro e sul territorio), significa restituire ai lavoratori la possibilità di intervenire sulla propria condizione, significa anche stanare chi usa strumentalmente la contrattazione di secondo livello per cancellare il contratto.
Quanto deve durare il contratto nazionale? Anche tre anni, purché venga reinserito il fiscal drag e uno strumento che consenta il recupero annuale ed automatico del potere d’acquisto dei salari.
Questo per noi significa non stare in difesa.
C’è poi un nodo non più eludibile se vogliamo davvero modificare i rapporti di forza all’interno delle imprese: la conoscenza preventiva che i lavoratori devono avere delle dinamiche e la loro possibilità di intervenire sulle scelte dell’azienda.
Recentemente ci siamo occupati della vicenda Alitalia e ci siamo imbattuti nei meccanismi decisionali della compagnia aerea tedesca Lufthansa, dove esiste un consiglio di gestione che si confronta con le organizzazioni sindacali e un consiglio di sorveglianza, formato al 50% da rappresentanti eletti dai lavoratori.
Il consiglio di sorveglianza ha il compito di vigilare perché l’operato del consiglio di gestione non vada contro gli interessi generali dell’impresa, tra i quali ci sono gli interessi dei lavoratori. Nel caso Lufthansa è stato proprio questo organismo a mettere il freno sulla possibilità di acquisire Alitalia, la compagnia che i famosi “imprenditori del Nord” si preparano a far fallire – con quel che ne consegue sul piano occupazionale - dopo avere prodotto, insieme alla classe politica soprattutto lombarda, il più clamoroso disastro degli ultimi tempi: Malpensa.
Senza indicare modelli di relazioni sociali, continuo a pensare che un potere da consegnare nelle mani dei lavoratori sia quello di conoscere preventivamente le scelte dell’impresa, anche attraverso una legislazione di sostegno.
Così come continuo a pensare che servano leggi per impedire alle multinazionali di sfruttare il territorio, usarne le risorse e i servizi e poi andarsene altrove, spostando le produzioni, chiudendo gli stabilimenti, cancellando posti di lavoro.
Altrove lo Stato si difende, difende il bene della collettività. Di recente Nokia ha deciso di abbandonare un sito in Germania: lo Stato tedesco a chiesto alla multinazionale un risarcimento di 41 milioni di euro.
E’ ora che il rapporto tra lavoratore dipendente e Stato esca dal moralismo, presente anche a sinistra.

Abbiamo economisti, sociologi, studiosi, giornalisti capaci di partire da rigorosi punti di vista, di fare giusti conti e di produrre analisi credibili. Fatica sprecata se per il lavoratore non cambia mai nulla, a partire dall’ingiusto sistema fiscale.
Delle due l’una. O c’è una immediata detassazione degli aumenti contrattuali, l’inserimento del fiscal drag e la riduzione delle aliquote fiscali sul lavoro dipendente oppure quella che Pier Carniti, in una recente intervista, ha lanciato come provocazione, è una idea: “Ci avete spremuto e preso in giro per decenni, ora trattateci come gli altri: dichiarazione annuale dei redditi e niente più tassazione alla fonte”.
Perché no? Che malattia hanno i lavoratori dipendenti per non poter fare come tutti gli altri contribuenti?


I dati che emergono da una recente indagine di Bankitalia sono significativi: dal 2000 al 2006 il reddito delle famiglie di un lavoratore dipendente è rimasto invariato; in compenso è aumentato del 13% il reddito delle famiglie dei lavoratori autonomi.
C’è un’altra percentuale che segna uno squilibrio insostenibile: nel nostro paese il 10% delle famiglie possiede il 45% della ricchezza, mentre salgono i livelli di indebitamento: nel 2006 il 26% delle famiglie italiane si è rivolta ad agenzie finanziarie.
E qui vorrei tornare a parlare di operai.
Secondo il vocabolario della lingua italiana operaio è “chi esplica un’attività manuale alle dipendenze di qualcuno”.
Per la mia generazione “operaio” è solo chi sta in fonderia, alla catena di montaggio, chi lavora in una acciaieria, in un cantiere, chi trasforma la materia.
Oggi dobbiamo declinare la parola sulla base della condizione del lavoratore e dei suoi diritti, non attraverso la sua mansione o collocazione fisica.

Quale è la condizione di una falsa partita iva, di un collaboratore a progetto, della cassiera di un ipermercato, di chi lavora in un call center, che non sanno a cosa serva il loro lavoro, non hanno alcun controllo sul ritmo e sull’orario, non determinano il proprio salario, alcuni non hanno ferie, malattia, maternità? Il massimo di subordinazione, di sfruttamento, di negazione dei diritti.
Sono i moderni operai. I più soli, indifesi, ricattabili degli operai.
Qualsiasi progetto di unificazione del mondo del lavoro che voglia parlare a questi nuovi operai, che voglia costruire un punto di vista altro ha bisogno di un forte (anche dal punto di vista numerico) e plurale soggetto politico di rappresentanza.
Ecco perché La Sinistra l’Arcobaleno non può essere giocata solo “contro”: contro Berlusconi, contro la destra autoritaria. Ci siamo già passati: la “barriera” antifascista e democratica regge l’emergenza, il contingente, ma non oltre.
Qui non si tratta solo di resistere, il nuovo soggetto della sinistra deve avere una precisa identità e una rigorosa proposta strategica.

Oltre ai punti dell’agenda, che già sono comuni, noi del Prc mettiamo a disposizione del nuovo soggetto la nostra esperienza, le nostre riflessioni, le analisi e le proposte sui grandi capitoli che compongono il libro del lavoro: la precarietà e, quindi, nuove norme per il suo superamento e per dare dignità al lavoro; le pensioni e il welfare, e quindi una riforma complessiva del sistema; la salute e la sicurezza nei luoghi di lavoro; la trasformazione del capitalismo italiano e la necessità di una reale politica industriale; la questione salariale; la democrazia e la rappresentanza nei luoghi di lavoro; la necessità di un intervento pubblico in economia; la dimensione, almeno europea, dell’agire politico e sindacale.
Abbiamo raccolto queste idee e proposte in un testo che abbiamo ironicamente chiamato “Libro Bianco” proprio perché la realtà ha dimostrato il fallimento di quella Legge 30 che avrebbe dovuto rendere competitive le imprese: la precarietà è aumentata, ma le aziende italiane sono sempre più piccole, sottocapitalizzate, prive di iniziativa, incapaci di investire in ricerca e innovazione e, quindi, incapaci di competere sul piano internazionale.
I contenuti, le proposte del nostro Libro Bianco sono il patrimonio che consegnamo alla sinistra: partono da una seria critica al sistema capitalistico italiano, scaturiscono dall’esperienza dei conflitti nei luoghi di lavoro (da Atesia, Vodafone, Wind alla Fincantieri; dalla Bertone, alla Fiat di Melfi, alla Esselunga).

La nascita del Partito Democratico ci affida la responsabilità enorme di essere l’unico punto di riferimento delle lavoratrici e dei lavoratori, dal momento che il Pd ha scelto come tratto fondante della sua identità l’equidistanza tra impresa e lavoratore.
Mi ha colpito questa posizione - che nega non solo la realtà, ma i fondamenti stessi dello stato liberale - basata sull’idea della sostanziale parità tra lavoratore e impresa come se i due soggetti avessero la stessa forza, come se il contratto tra i due potesse essere un libero contratto.
In un’intervista il segretario del Pd ha definito con ulteriore precisione la linea del suo partito: “Dobbiamo ripensare a chi è l’imprenditore. L’imprenditore è un lavoratore, che rischia, che ci mette del suo”.
Sotto l’apparente banalità (è ovvio che gli imprenditori si alzano al mattino, fanno delle cose, lavorano), l’affermazione del segretario del Pd segna una rottura: nega la subordinazione del lavoratore, il suo essere dipendente da altri, perchè questi “altri” sono proprietari dei mezzi di produzione, del tempo e della conoscenza.
“Lavoratore” è una condizione, non è uno stato civile.

Questa operazione ha conseguenze devastanti perché nega la necessità di un intervento dello Stato per bilanciate lo squilibrio esistente, nega la necessità di leggi, di norme, di contratti che tutelino il lavoratore, annulla la ragione stessa dell’esistenza della sinistra.
Qui c’è una ragione in più per dare vita al nuovo soggetto politico della Sinistra.
Se il lavoro è il fulcro attorno a cui tutto ruota, credo che proprio nei luoghi di lavoro si debba da subito cominciare a costruire le sezioni della Sinistra Arcobaleno, accettando la sfida di quelle associazioni e movimenti che ci chiedono di cominciare a fare, avviando da subito il tesseramento al nuovo soggetto politico plurale, ferma restando la nostra intenzione di investire e strutturarci, comunque, nei luoghi di lavoro.
A proposito del fare, in questa assemblea abbiamo deciso di lasciare la parola proprio a chi fa: alle donne e agli uomini che quotidianamente si misurano nei luoghi di lavoro con rapporti di forza impari, al nord come al sud, nelle piccole come nelle grandi imprese, nei servizi, nelle mille, frammentate realtà.
Abbiamo chiesto a loro di prendere la parola perché siamo convinti che il protagonismo di chi vive una condizione sia l’elemento indispensabile non solo per riscrivere il presente ma, anche, per ridare “moralità” alla politica.

La voce delle lavoratrici vale ancora di più, perché sono portatrici di una differenza di genere e di una pratica che consideriamo un valore aggiunto per un serio progetto di ricomposizione a sinistra.
In questi giorni i media si stanno occupando del confronto elettorale negli Stati Uniti, un confronto da cui il lavoro è escluso.
John Fitzgerald Kennedy, nel suo discorso di insediamento alla Casa Bianca disse: “Non chiedetevi cosa può fare per voi il vostro paese, chiedetevi cosa potete fare voi per il vostro paese”.
Siamo in Italia e vorrei che alle lavoratrici e i lavoratori venisse finalmente riconosciuto cosa hanno fatto e cosa continuano a fare per questo paese, un paese in cui il più famoso degli imprenditori (il presidente di Confindustria), quello che in un anno guadagna più di 500 lavoratori della sua azienda, si permette di dettare legge, arrivando persino a chiedere di cambiare la Costituzione.
Dai diversi spezzoni che compongono il film di questa assemblea - per chi ha voglia di guardarlo davvero - non uscirà l’immagine del “povero lavoratore”, di quello che ha bisogno di assistenza, cui tendere la mano.
Vorremmo che giornalisti, scrittori, pittori, fotografi, musicisti, registi, riprendessero a narrare, a mostrare il vero mondo del lavoro, oggi invisibile.

Bisogna uscire dal pietismo, persino da una forma strana di solidarietà che da per scontata la rassegnazione, l’ineludibilità di una condizione di sfruttamento e disagio.
I lavoratori non stanno male “per caso”, perché questa è la loro natura. I lavoratori stanno male perché ci sono poteri che li opprimono, che li vogliono senza voce.
Negli anni che abbiamo alle spalle è passata l’idea che tutto fosse uguale, che non ci fossero più confini. Niente più classi, niente più destra e sinistra, niente più controparti, niente più interessi diversi, contrapposti.
Chi è la controparte di un giovane che lavora in un call center? e quella di un operaio alle dipendenze di una multinazionale? Chi è il soggetto con cui interloquire, avanzare rivendicazioni, scontrarsi? Il monitor di un computer, una voce registrata, un gruppo dirigente che sta dall’altra parte del mondo, un fondo di investimenti? Chi decide ritmi e orari di lavoro? Chi stabilisce lo spostamento di una produzione, chi decide lo sviluppo di un’azienda o le sue dismissioni?
La frantumazione, solo apparente, dei poteri ha prodotto l’apparente inesistenza dei poteri.
Dobbiamo rimetterli a fuoco, individuare gli interlocutori e gli avversari, se non vogliamo che la passione, la partecipazione, la volontà di cambiamento anneghino nella palude dell’indistinto.
La politica ha la responsabilità grande di essersi staccata dal reale, dalle persone, dai loro bisogni, dalle loro aspettative. Le istituzioni sono luoghi lontani.
Ci sono immagini che danno la misura dell’abissale distanza tra ciò che di positivo si muove nella società e ciò che accade nei palazzi del potere: i giovani siciliani che sono scesi in piazza per chiedere le dimissioni di Cuffaro e le urla, gli sberleffi, gli sputi in Parlamento; i lavoratori che manifestano per il contratto (non solo per aumenti salariali) e il gesto offensivo di chi cerca di comprarli per quattro soldi; gli immigrati in coda per il rinnovo del permesso di soggiorno e chi li sfrutta senza riconoscerli né come lavoratori né come cittadini; la dignità di chi cerca di far quadrare i conti e lo spettacolo osceno di chi si indigna all’idea che possano aumentare le tasse sugli yacht…
Non è vero che tutto è uguale, che non esistono più confini.
Da una parte c’è il potere, dall’altra un’esigenza di giustizia, un bisogno enorme di rappresentanza. La sinistra o sta lì o non è sinistra.
Non so cosa decideranno gli italiani alle urne.

So che noi abbiamo intenzione di continuare ad analizzare, riflettere, avanzare proposte, sostenerle con l’azione, sia per un nuovo governo, sia per una forte opposizione.
Nei prossimi giorni saremo a Milano per affrontare la questione del lavoro in Europa, poi a Roma per discutere di lavoro pubblico, a Napoli per parlare di reddito e di una nuova economia per il mezzogiorno e a Palermo per affermare che il lavoro è il più potente antidoto alla mafia.
Il Sud del paese è luogo dove si congiungono il massimo di precarietà, la più profonda crisi delle istituzioni e il fallimento di un modello industriale “esportato” malamente dal Nord.
Il Mezzogiorno è anche il luogo dei giovani di Locri, di Napoli, della Sicilia che si schierano contro la malavita organizzata, rivendicano una politica pulita, chiedono un cambiamento che non li costringa (come sta avvenendo) a migrare al Nord sulle orme dei loro padri. Sono giovani che non accettano più di essere eterni esclusi.
Per tutto questo il Sud è il luogo principale dove provare a costruire punti di contatto tra nuove politiche economiche, un lavoro che abbia in se' la formazione continua, uno sviluppo che tenga conto dell’ambiente.

Se dovessi sintetizzare, in trenta secondi, cosa chiediamo come priorità direi: un lavoro per vivere e non per morire; 100 euro in più in busta paga derivanti dalla riduzione delle tasse, oltre agli aumenti conquistati con il rinnovo dei contratti; un impiego sicuro dopo 36 mesi di precarietà; un reddito sociale per garantire a tutti almeno 8.500 euro all’anno.
Se dovessi sintetizzare, in trenta secondi, cosa serve per tentare di dare alle donne, agli uomini, ai giovani migliori condizioni di vita e di lavoro direi: un nuovo soggetto politico di massa che le lavoratrici e i lavoratori sentano proprio.
E’ questo che vogliamo fare.

Torino, 9 Febbraio 2008

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