martedì 15 gennaio 2008

La cecità al potere

da il Manifesto 12/1/2008
Gabriele Polo

Non è strano che venerdì scorso Walter Veltroni abbia visitato una fabbrica bolognese ferma e deserta. Non l'ha fatto apposta, semplicemente nessuno lo aveva avvisato che per quel giorno era in programma lo sciopero nazionale dei metalmeccanici (con cui il leader del Pd ha prontamente solidarizzato). Distrazione priva di dolo, semplice difetto di conoscenza.
Del resto non è la prima volta che accade. Nel novembre del 2001 mentre a Roma la Fiom portava in piazza 200.000 lavoratori per il contratto, a Pesaro iniziava il congresso nazionale dei Ds: i dirigenti della Quercia, all'ultimo momento, pensarono di far aprire la loro assise dall'intervento di un operaio, per dimostrare attenzione verso le persone che stavano manifestando e per le loro richieste. Ma non trovarono tra i delegati nessun operaio metalmeccanico. Distrazione, questa, un po' più dolosa ma non meno ignorante.
Il lavoro - non solo quello operaio, ma quello principalmente, «spigoloso» com'è - può essere episodicamente evocato come problema doloroso, persino mortale come nel caso dei quotidiani incidenti. Però è diventato un oggetto «sconosciuto» nella sua composizione materiale. Il fatto che per trovare un operaio nell'affollata assemblea nazionale del Pd serva la pazienza di Diogene è sia una scelta che la visualizzazione di un distacco. Di una lontananza che la tardiva autodenuncia di Epifani, ieri su Repubblica («il sindacato deve tornare in fabbrica»), allarga alla rappresentanza sociale.
La crisi della politica - che suona più forte a sinistra - nasce dalla crescente distanza tra le élites e «il popolo». Conta di più l'opinione di Giuliano Ferrara che uno sciopero generale. Siamo il paese europeo che più di ogni altro cura il riordino dei bilanci e quello che trascura di più i salari immiseriti. La «casta» dei rappresentanti e degli «autorevoli» parla tra sé e ascolta solo se stessa, snobbando chiunque ne sia al di fuori. Vale per il lavoro come per ogni aspetto della vita quotidiana. Salvo poi stupirsi che tutto finisca nella spazzatura di Napoli o con i morti della ThyssenKrupp. In una distanza dell'alto che ormai viene vissuta come «disprezzo» (ricambiato) da chi sta in basso. Più che una crisi è una cesura epocale, al limite dell'insanabile. E dovrebbe essere il punto più urgente di riflessione per una futura sinistra, per tornare a capire e a poter agire.
Qui al manifesto, mentre raccogliamo gli ultimi cartoni del trasloco che da domani ci porterà a lavorare in una nuova sede, ci accorgiamo ancora una volta che il compito di conoscere, raccontare, dare la parola a chi non compare è quello proprio di un giornale politico come questo. Impegno difficile ma essenziale per qualunque ricostruzione di una cultura politica che non si adatti all'esistente. Libero e indipendente - «comunista» - perché partigiano e alternativo a ciò che oggi appare come prevalente e assoluto. Ma - al fondo - cieco, più che distratto.

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