di Elisabetta Piccolotti*
Sono sempre un po’ asfittiche le discussioni sui governi. Sono spesso come le pagine politiche dei grandi quotidiani: faccione di Prodi, Berlusconi impettito, titoletto per gli altri. Bisogna girare molte pagine, arrivare alla cronaca o alla cultura, per leggere qualcosa che stuzzichi la propria immaginazione politica.
Il Corriere riportava l’altro ieri che i giovani di Izquierda Unida hanno indetto un concorso per ‘superprecari’. Il curriculum al rovescio del vincitore deve collezionare il maggior numero di contratti precari, di durata più breve e salario più basso.
Anche da noi lavoro e gare al ribasso vanno insieme: per anni la gara è stata ad abbassare il costo del lavoro. Oggi c’è una nuova categoria: vince chi riesce ad approvare leggi che cambino il meno possibile quelle precedenti. Ha vinto Prodi, con la parte del protocollo sul welfare sul lavoro precario.
Il centro del problema del rapporto fra la sinistra e il governo è anche qui.
Prodi avrà pure guadagnato la fiducia delle camere ma sicuramente ha perso quella dei precari e delle precarie. Più in generale, mi pare, quella delle giovani generazioni, per le quali il presente è un tormento e il futuro un assillo. Prima e dopo l’approvazione del protocollo, senza differenza.
Nell’immaginario sociale l’incertezza dei diritti e della vita sembrano diventate variabile indipendente dell’alternanza politica, addirittura variabile indipendente nel sistema economico, a sentire alcune dichiarazioni. A prescindere dalla presenza o meno nel governo delle forze di sinistra, e anche dalla presenza o meno dei sindacati nelle trattative. Viene dopo altre variabili indipendenti: la negazione dei diritti civili, le spese militari, la base di Vicenza, la commissione su Genova. Il danno è grave, gravissimo. E’ un tassello in più nel rifiuto dei partiti, della politica e nella sua definitiva squalifica.
Ci vorranno grande intelligenza politica e anche molti atti concreti per mantenere aperta la porta all’alternativa e al conflitto. Non mi sfugge che il più importante - senza portare qui decine di esempi, anche sulle recenti straordinarie mobilitazioni nel nostro paese, ultima quella del movimento femminista - è per noi considerare l’investimento nel conflitto sociale e nella partecipazione variabile anch’essa indipendente.
Mi pare ci sia poi anche un problema in più: una sinistra che è forza di governo ma non ottiene risultati è in ogni caso condannata alla minorità. E il problema che abbiamo chiamato dell’‘efficacia’. Anche il neonato Partito Democratico fa mostra di conoscere bene la regola per cui per nessuno può darsi ‘governo senza efficacia’: infatti gioca (al massacro) contro la sinistra, nei metodi e nel merito, puntando allo svuotamento del suo profilo politico. Si spiega così l’influenza di Confidustria: non è un ricatto, è un influenza benvoluta. Rispondere su questo livello è fondamentale.
Si può scegliere per ragioni tattiche come, quando e se rompere con questo governo. Si può e si deve chiedere una verifica, cercare di costruire un’assicurazione sul futuro e imporre una nuova negoziazione sulle priorità, si può anche, per me, discutere se sia o meno testimoniale ritirare la delegazione di governo. E’ una discussione importante, di tattica, ma mi pare chiaro che ci sia anche una discussione di prospettiva da fare.
Non è un caso, infatti, che è proprio dal problema dell’efficacia che ha preso avvio il confronto pubblico sulla costruzione del soggetto unitario e plurale della sinistra. Soluzione del problema e progetto politico restano oggi entrambi sul campo come passaggi irrinunciabili. Ora che l’ininfluenza delle forze politiche di sinistra rischia simbolicamente di divenire un fatto conclamato questo problema va riconsegnato anche a coloro, tanti, molti dei quali in piazza il 20 ottobre, che sentirono l’urgenza di cominciare un percorso comune. Immagino che sia di questo che vorrebbero discutere, e soprattutto di come continuare a riempire le strade di indignazione e volontà di cambiamento, che è tanta parte dell’efficacia. Questo è l’argine da cui guardiamo al futuro.
Alcuni, anche alcuni tra i partiti della sinistra, potrebbero pensare che questi siano buoni motivi per rendere l’assemblea dell’8 e il 9 dicembre il più possibile controllabile, irrigidita, cristallizzata. In sostanza una buona vetrina della sinistra. Il rischio c’è tutto. Per scongiurarlo molti dovrebbero mettersi in discussione, ovvero discutere insieme, e abbandonare definitivamente la logica della ‘trattativa’ tra partiti. Il problema è di tutti, e non si risolve certamente con il politicismo testimoniale dell’autotutela che di alcuni è la tattica. Si discute di consultazione, referendum: sono d’accordo, ora vanno aperti più che mai i processi decisionali. Nel frattempo permettere a tutti e tutte di prender parola l’8 e il 9, anche in plenaria, sarebbe un primo segnale. Altrimenti perché chiamarla assemblea?
Portavoce Nazionale Giovani Comuniste/i
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