sabato 1 dicembre 2007

L'amara lezione

da il Manifesto 29/11/2007
Gabriele Polo

Quando, poco più di un mese fa, siamo entrati a palazzo Chigi per spiegare al presidente del consiglio perché saremmo scesi in piazza il 20 ottobre «contro tutte le precarietà», abbiamo trovato un Prodi cupo e pessimista. Forse recitando un po', ma non troppo, il premier sembrava aver interiorizzato l'ineluttabilità di un'imminente crisi politica, frutto «della corruzione e dell'intrigo» con cui la destra «si stava comprando una serie di senatori» per farlo cadere: «Novembre è il mese del tradimento», parole sue. Qualche giorno dopo una grande manifestazione chiedeva alla sinistra parlamentare di contare di più, di aprirsi alla pluralità, e al governo di ascoltare le ragioni di quella piazza. Oggi Prodi è sicuramente meno cupo, l'esecutivo è salvo, il 20 ottobre ha perso. Rimangono le sue ragioni e il suo spirito, ma come uno spettro che si aggira solitario.
Quando si subisce una sconfitta è bene ammetterlo apertamente, capirne le cause e trarre delle conclusioni. La blindatura del paccheto welfare attraverso il voto di fiducia dice due cose: che non c'è stata alcuna possibilità di migliorare quel testo - né attraverso l'azione parlamentare, né attraverso la mobilitazione sociale -, che il peso della sinistra nel governo di cui fa parte è sostanzialmente irrilevante. Presenza generosa ma facilmente superabile. In un quadro politico che si prepara a cambiare rapidamente natura, con un governo tenuto in piedi solo dalla prospettiva di una riforma elettorale fatta apposta per ridurre ai minimi termini la rappresentanza di chi il liberismo lo subisce ed esaltare il peso di chi lo esercita.
Evidentemente oggi gli spazi di condizionamento del pensiero dominante e delle sue conseguenti pratiche di potere sono ancor più stretti di quel piccolo pertugio che i meno pessimisti tra noi pensavano esistere. Forse non ci sono proprio. E, allora, visto che Prodi si «assume tutte le responsabilità» della fiducia su un pessimo testo, la sinistra dovrebbe assumersi quelle di una sconfitta, lanciare un segnale forte a chi l'ha votata e considerarsi libera dal vincolo di fedeltà verso un'alleanza che ha ripudiato se stessa, spiegare a che serve la tanto evocata «cosa nuova», perché sia un mezzo e non si riduca a un fine (su che cosa e per fare cosa si convoca in «stati generali») e chiarirsi le idee sul rapporto con il potere. Liberandosi dall'idea che tutto si giochi sullo stare (o meno) al governo, ritornando al semplice concetto che senza una politica fatta fuori da esso si è impotenti, perché è in quel fuori che si ricostruisce una cultura e, poi, una prospettiva alternativa.
Senza la presa d'atto di ciò che è successo in questi mesi, senza questa coscienza sul proprio «essere», si possono alzare i toni e minacciare sfracelli. Ma poi si finisce col subire tutto, dalle leggi sulla precarietà alla guerra in Afghanistan, dai Dico dimenticati alla sicurezza emergenziale. Perdendo il senso di sé. E, nel loro piccolo, persino gli elettori.

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