da il Manifesto 29/11/2007
Astrit Dakli
A tre giorni dal voto, la campagna elettorale per il rinnovo della Duma ha già lasciato il posto a quella per le elezioni presidenziali del 2 marzo. Un modo per consentire a Vladimir Putin di esternare a raffica anche durante le 48 ore di «pausa di riflessione»; ma anche per segnalare ai cittadini che i due voti, quello del 2 dicembre e quello del 2 marzo, sono strettamente legati e se si vuole che Putin resti «leader nazionale», come da tante parti si chiede, occorre premiare adesso il «suo» partito.
In effetti, se la campagna elettorale ordinaria è praticamente finita, sono entrati nella fase più acuta gli sforzi «sotto il tavolo» per ottenere il risultato voluto, cioè un trionfo di Russia Unita, il partito che ha Putin (pur non iscritto) come capolista e al quale appartengono peraltro la grandissima maggioranza dei governatori, dei sindaci e dei funzionari statali. Da tutte gli angoli della grande Russia giungono segnalazioni - anonime, naturalmente, ma una parte della stampa le raccoglie e le fa proprie perché in effetti sono credibili - di sistematiche operazioni per portare la gente a votare «in modo giusto»; con promesse e minacce si chiede a direttori e capiufficio di obbligare i propri dipendenti a recarsi alle urne; per non parlare di quel che accade dentro istituzioni di massa come le forze armate o le università, dove militari e studenti sono minacciati di gravi conseguenze se il voto nei rispettivi seggi non rispecchierà «le necessità del paese». Nelle aree più povere si promettono aiuti e regali (carbone, salame, zucchero) in cambio di un voto massiccio.
Ovunque, Russia Unita chiede (pare anche organizzando falsificazioni dei registri elettorali, ma queste sono notizie ovviamente non provate) un voto totalizzante, che le dia almeno la maggioranza dei due terzi nella prossima Duma, se non il suo controllo totale. Soprattutto, si chiede un voto che rappresenti, tre mesi prima delle presidenziali cui Putin non potrà partecipare per non contravvenire alla Costituzione che vieta più di due mandati consecutivi, un plebiscito assoluto e incontestabile a favore del presidente. Forte di questo plebiscito, Putin potrà poi decidere come comportarsi.
Ieri il presidente ha ripreso - parlando agli ambasciatori di tutti i paesi, riuniti nella magnifica sala di San Giorgio al Cremlino - il tema dei rapporti fra la Russia e l'Occidente, affermando con grande durezza che «non lasceremo che il processo di sviluppo della Russia venga influenzato e alterato dall'esterno»: con chiaro riferimento alle polemiche sollevate dall'organismo di verifica elettorale dell'Osce e da alcuni governi occidentali, Usa in testa, circa la scarsa democraticità e ancor più scarsa trasparenza della campagna elettorale in corso.
In questa luce, anche la continua, brutale repressione dei piccoli movimenti di opposizione e dei loro leader - ieri a Mosca sono stati picchiati e fermati anche dei giornalisti di alcune testate «liberal», che insieme a dei militanti protestavano per la detenzione dello scacchista e oppositore Garry Kasparov - assume un senso diverso: non si teme tanto che essi possano davvero innescare una «rivoluzione» più o meno colorata in Russia, quanto piuttosto si vuole mostrare platealmente alla massa dei bravi cittadini-elettori putiniani che un pericolo (di ingerenza straniera attraverso l'opposizione liberale) c'è e che solo con il pugno duro lo si può affrontare e sventare. Un altro argomento di propaganda elettorale, insomma: per il voto di domenica ma soprattutto in vista dell'ancora misterioso showdown del 2 marzo, la cui scenografia forse non è ancora del tutto chiara nemmeno al padrone del Cremlino.
In effetti, se la campagna elettorale ordinaria è praticamente finita, sono entrati nella fase più acuta gli sforzi «sotto il tavolo» per ottenere il risultato voluto, cioè un trionfo di Russia Unita, il partito che ha Putin (pur non iscritto) come capolista e al quale appartengono peraltro la grandissima maggioranza dei governatori, dei sindaci e dei funzionari statali. Da tutte gli angoli della grande Russia giungono segnalazioni - anonime, naturalmente, ma una parte della stampa le raccoglie e le fa proprie perché in effetti sono credibili - di sistematiche operazioni per portare la gente a votare «in modo giusto»; con promesse e minacce si chiede a direttori e capiufficio di obbligare i propri dipendenti a recarsi alle urne; per non parlare di quel che accade dentro istituzioni di massa come le forze armate o le università, dove militari e studenti sono minacciati di gravi conseguenze se il voto nei rispettivi seggi non rispecchierà «le necessità del paese». Nelle aree più povere si promettono aiuti e regali (carbone, salame, zucchero) in cambio di un voto massiccio.
Ovunque, Russia Unita chiede (pare anche organizzando falsificazioni dei registri elettorali, ma queste sono notizie ovviamente non provate) un voto totalizzante, che le dia almeno la maggioranza dei due terzi nella prossima Duma, se non il suo controllo totale. Soprattutto, si chiede un voto che rappresenti, tre mesi prima delle presidenziali cui Putin non potrà partecipare per non contravvenire alla Costituzione che vieta più di due mandati consecutivi, un plebiscito assoluto e incontestabile a favore del presidente. Forte di questo plebiscito, Putin potrà poi decidere come comportarsi.
Ieri il presidente ha ripreso - parlando agli ambasciatori di tutti i paesi, riuniti nella magnifica sala di San Giorgio al Cremlino - il tema dei rapporti fra la Russia e l'Occidente, affermando con grande durezza che «non lasceremo che il processo di sviluppo della Russia venga influenzato e alterato dall'esterno»: con chiaro riferimento alle polemiche sollevate dall'organismo di verifica elettorale dell'Osce e da alcuni governi occidentali, Usa in testa, circa la scarsa democraticità e ancor più scarsa trasparenza della campagna elettorale in corso.
In questa luce, anche la continua, brutale repressione dei piccoli movimenti di opposizione e dei loro leader - ieri a Mosca sono stati picchiati e fermati anche dei giornalisti di alcune testate «liberal», che insieme a dei militanti protestavano per la detenzione dello scacchista e oppositore Garry Kasparov - assume un senso diverso: non si teme tanto che essi possano davvero innescare una «rivoluzione» più o meno colorata in Russia, quanto piuttosto si vuole mostrare platealmente alla massa dei bravi cittadini-elettori putiniani che un pericolo (di ingerenza straniera attraverso l'opposizione liberale) c'è e che solo con il pugno duro lo si può affrontare e sventare. Un altro argomento di propaganda elettorale, insomma: per il voto di domenica ma soprattutto in vista dell'ancora misterioso showdown del 2 marzo, la cui scenografia forse non è ancora del tutto chiara nemmeno al padrone del Cremlino.
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