venerdì 28 settembre 2007

Birmania. Scatta la repressione nel vuoto delle democrazie occidentali

Soldati birmani contro i monaci: 5 morti
Militari e poliziotti in assetto antisommossa hanno caricato i manifestanti nei pressi della pagoda di Shwegadon

di Anna Maria Bruni

Almeno cinque persone, tra cui un monaco, sono rimaste uccise nelle cariche della polizia verificatesi oggi contro i manifestanti a Yangon, in Birmania. Gli incidenti più gravi sono avvenuti nei pressi della pagoda di Sule, uno dei centri nevralgici delle proteste di questi giorni, il luogo di culto da cui era partita anche la "rivolta degli studenti" nel 1988. 150 sono invece i feriti fra i manifestanti.
Secondo la radio “Voce democratica di Birmania”, con sede a Oslo, tre persone sono state uccise dai militari di fronte alla pagoda di Shwedagon, la più importante della capitale, diventata il fulcro della proteste, mentre altre due sono morte dinanzi a quella di Sule.

Eppure solo ieri un analista birmano esiliato in Thailandia, Aung Thu, Nyein aveva dichiarato alla France Press che “il regime si è mostrato estremamente prudente negli ultimi giorni e sta tentando di evitare tensioni con i manifestanti”.
Ma evidentemente la protesta deve essere arginata, e le reazioni ancora tiepide dell’Occidente hanno permesso la svolta repressiva che oggi sembra prendere piede.

Ma ricostruiamo i fatti.
La protesta aveva già preso vita a metà agosto con piccole manifestazioni in varie città della Birmania dopo la decisione di aumentare i prezzi della benzina del 70% , del diesel del 100% e del gas compresso da cucina e per gli autobus del 500%. Decisione che ha prodotto una serie di altri aumenti a catena delle materie prime, tra cui il riso, e l'impennata del costo dei biglietti degli autobus e dei trasporti. Inoltre, in un paese dove nell’era del capitalismo globalizzato regna una dittatura militare, e quindi la democrazia è un mito, il lavoro sfiora la schiavizzazione e lo ‘sviluppo’ procede con le tappe del lavoro forzato. E’ così che la protesta arriva nei monasteri e coinvolge i monaci, che tornano protagonisti accanto alla popolazione per denunciare un sistema di vita insostenibile. E scelgono, in piena coerenza con una vita dedicata al messaggio di pace del Buddha, la strada della non violenza. Già nel 1988 i monaci avevano dato vita ad una grande protesta violentemente repressa dalla giunta, ma che è stata finora l'unica sfida seria al regime.

I piccoli focolai che si sviluppano nel corso dell’ultimo mese sfidano già la reazione violenta dei lacrimogeni e dei manganelli delle forze di polizia birmane, e finalmente il 18 settembre esplodono in una protesta che dilaga in tutto il paese. La lista delle manifestazioni è lunghissima: Rangoon, Sittwe, Aarakan, Pegu, Mandalay, Pakkoku.

La giunta intanto se la prende coi civili. Nella capitale viene arrestata una attivista in clandestinità: Naw Ohn Hla, già membro della Lega nazionale per la democrazia, e una delle protagoniste delle prime manifestazioni scoppiate in agosto contro il carovita.

Nel frattempo la protesta continua ad allargarsi. A Sittwe 2000 monaci chiedono la liberazione dei quattro colleghi arrestati pochi giorni prima.

Il terzo giorno della protesta non violenta almeno un migliaio di monaci marcia sotto la pioggia per le strade di Rangoon, accompagnato da una folla di altre proteste a Pegu, Mandalay, Sagaing, Magwe, nelle città degli stati Mon, nell'Arakan, nel Tenasserim, mentre la giunta militare passa alla prima minaccia: il ministro per gli affari religiosi, il generale Thura Myint Maung, intima «se i monaci non rispetteranno le regole, adotteremo alcuni provvedimenti in base alla legge in vigore».

La rivolta intanto vede anche l'adesione del Dalai Lama.

A questo punto, il pachiderma occidentale comincia a dare segni di vita, ma sono solo sbadigli.
La situazione in Birmania diventa sì il centro del dibattito che si apre il 24 al parlamento Ue, ma sia il capo della diplomazia europea Javier Solana che la Casa Bianca si limitano a parole di rito. Seguono «con attenzione» e «incoraggiano» il regime militare al dialogo. Gli Usa – per bocca del portavoce della Casa Bianca, Gordon Johndroe - portano avanti contatti con «alleati e amici nella regione» per contenere le reazioni della giunta. Il segretario generale dell'Onu Ban-Ki moon, «elogia» il carattere pacifico delle manifestazioni a Rangoon, «fa appello» alle autorità birmane perché continuino a usare moderazione e «esprime l'auspicio» che il governo apra il dialogo con tutte le parti per avviare un processo di riconciliazione nazionale, nel pieno rispetto dei diritti umani, che riapra le porte alla democrazia. Persino la Svizzera esprime preoccupazione. Berna ha invitato le autorità birmane a permettere al Comitato internazionale della Croce Rossa (Icrc) di riprendere le sue attività nei luoghi di detenzione su tutto il territorio. Posizioni di facciata, ma nulla di concreto per scongiurare il pericolo di una svolta sanguinaria.

La situazione quindi resta tesa, e aperta anche alla peggiore delle ipotesi.

Sul fronte orientale anche la Cina (ma anche l'India, altra grande alleata regionale, e i paesi dell'Asean, l'organizzazione del Sudest asiatico di cui fa parte anche la Birmania) potrebbe fare la differenza se prendesse posizione. Ma anche un intervento cinese, potrebbe non pesare abbastanza nei giochi interni di uomini che, con la fine della dittatura, vedrebbero compromesso, oltre che il potere, il proprio impero economico.
In questo quadro probabilmente solo se l’Occidente prenderà non solo una sera posizione di condanna, ma anche ad esercitare sanzioni, si può sperare che la repressione innescata dai militari possa rientrare, per fare spazio alle richieste dei monaci e della popolazione.



Roma, 26 settembre 2007

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