mercoledì 30 luglio 2008

L'attacco ai precari è solo l'inizio

da il Manifesto 29/07/2008
Loris Campetti

Ha ragione il presidente dei deputati leghisti, Roberto Cota: la cosiddetta norma anti precari non toglie diritti, li ripristina. Tutto sta a intendersi sui soggetti a cui i diritti vengono «ripristinati». In questo caso i beneficiari sono gli imprenditori che giustamente plaudono all'ultimo assalto ai diritti dei lavoratori sferrato dal governo. Ai padroni viene restituito il potere assoluto sulla forza lavoro, arginato dallo Statuto e dalle successive conquiste strappate dal movimento operaio negli anni Settanta. La contestata norma collegata alla manovra economica, infatti, concede ai datori di lavoro il diritto a licenziare i propri dipendenti.

Per ora le vittime sono i precari, domani chissà. Possono licenziare anche in violazione delle normative vigenti, rischiando al massimo una multarella di qualche migliaio di euro, qualora il giudice ritenga illegittimo il provvedimento. Insomma, nessun obbligo al reintegro e, dato che stiamo parlando di lavoratori precari, alla stipula di un contratto a tempo indeterminato. Dopo la conquista di Palazzo Chigi, la destra aveva giurato che l'articolo 18 non sarebbe stato toccato, certo memore di quei tre milioni di persone che avevano invaso il Circo Massimo appena sei anni prima - sembra passato un secolo - e invece ci ripensa, usando la più infame delle strategie. Cominciano la strage scatenandosi contro i più deboli, poi ce ne sarà per tutti. I precari occupano nel mercato del lavoro la stessa collocazione assegnata ai rom nella scala sociale.
La filosofia di Berlusconi è lineare: abbiamo vinto le elezioni conquistandoci il consenso della maggioranza degli italiani e la delega a governare. E noi governiamo, senza dover più rispondere ad alcuno, o alla legge. Te la do io la concertazione con le parti sociali, l'unico interlocutore riconosciuto dall'esecutivo è la Confindustria. O forse è ancora peggio: la mente è Emma Marcegaglia e i ministri il braccio (armato).
La norma anti-precari, si è scritto in questi giorni, «non ha padri» e molti anche nella maggioranza e nello stesso governo tendono a chiamarsi fuori, della serie «io non c'entro». Eppure la norma è stata partorita nella commissione bilancio della Camera, dunque in molti sapevano e l'hanno decisa. Ma allora, come mai la cosiddetta opposizione del Pd, o Di Pietro, sono caduti dalle nuvole? E' istruttiva una dichiarazione attribuita all'ex ministro del lavoro Cesare Damiano, che rivendica alla propria parte politica il fatto che la norma sia solo una sanatoria rispetto alle vertenze già aperte dai precari, e non abbia valore per i contratti futuri. Ammesso e non concesso che sia così, come mai Damiano e i suoi non hanno gridato allo scandalo, trovandosi di fronte a quella norma, e perché solo ora Walter Veltroni si indigna e annuncia battaglia in Parlamento? Non ci si venga a dire che siamo maldisposti, pregiudiziali nei confronti del Pd. Solo due giorni fa il Corriere ha pubblicato un ficcante intervento firmato dal «responsabile per il Lavoro e il Welfare nel governo ombra» Enrico Letta e dall'immarcescibile senatore e giuslavorista Pietro Ichino, titolato «Non solo precari, flessibilità per tutti». Nell'articolo si esalta il «drastico allargamento della possibilità di assumere lavoratori a termine» contenuto nell'emendamento aggiuntivo al decreto legge n. 112, quello che condanna i precari ad accontentarsi della paghetta impedendo invece la loro regolarizzazione. I due avanguardisti ombra contestano il metodo (l'emendamento aggiuntivo), ma al tempo stesso cantano «si può dare di più», si può estendere questa meraviglia ai lavoratori a tempo indeterminato.
Va dato atto alla Cgil di Guglielmo Epifani di aver preso una posizione netta contro il metodo (l'autoritarismo) e il merito (antisindacale) di quest'ultima aggressione del governo, e più in generale contro le politiche economiche e sociali di Berlusconi. Logica vorrebbe che alle parole il maggior sindacato italiano facesse seguire i fatti. E' quel che si aspettano in molti, dentro e fuori dalla Cgil. Quel che non si capisce è perché in corso d'Italia ci si ostini a salvare la Confindustria, che è il vero mandante delle politiche governative, il killer dei contratti nazionali.

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