Il modello sociale europeo è fallito, la flexecurity costa troppo… la ricetta Ue per il lavoro è liberi tutti
Fabio Sebastiani
Torino (nostro inviato)
Che fine ha fatto il modello sociale europeo? L'altro giorno la Commissione europea ha varato l'Agenda sociale, che in buona sostanza riprende alcuni temi più che usurati come la consultazione dei dipendenti e la lotta alle discriminazioni sul posto di lavoro. Bene, ma il modello sociale, quello che doveva coniugare sviluppo ed equità sociale?
L'occasione per fare il punto, ieri a Torino nel corso del confronto sulla flexecurity proposto dall'Ilo. Un bilancio piuttosto magro. In sintesi, mentre tutto il mondo, dall'Africa all'America latina, passando per l'India, trae ispirazione dal Vecchio continente per definire un argine alla violenza della globalizzazione, l'Europa innesca la marcia indietro ritirandosi nel "paradiso" dei principi proclamati ma non applicati. La Francia, presidente del semestre Ue, rappresentata a Torino dal ministro del Lavoro, ribadisce che ogni paese deve essere lasciato libero di fare a modo suo. «Il modello sociale europeo sarà il risultato di questi percorsi», dice il rappresentante di Parigi a Bruxelles, Jackie Morin. Del resto, era proprio questa la traccia uscita dal tormentato percorso della Bolkestein. E l'agenda del lavoro decente (" decent work "), proposta dall'Ilo, si allontana sempre di più. E' lo stesso modello danese di flexecurity ad essere messo in discussione perché troppo costoso e, soprattutto, troppo garantista.
Claus Hjort Frederiksen venti anni fa era un accanito liberal. Venti anni fa voleva a tutti i costi un taglio della tassazione, dei sussidi di disoccupazione e dei congedi di malattia. Oggi, da ministro del Lavoro in Danimarca, non ha più dubbi: «Il problema è scegliere se vogliamo competere con Vietnam e Cina, oppure se vogliamo operare nei settori di qualità, producendo un lavoro di qualità». Il modello danese costa un punto e mezzo di pil, certo. Ma Frederiksen non è per nulla spaventato: «E' un ottimo investimento», sottolinea e annuncia anche che il suo paese sta pensando di tagliare addirittura la tassazione sui redditi da lavoro per attirare maggiori capitali dall'estero. Sembra di stare su Marte. Soprattutto se il confronto immediato è con la Tanzania, dove le multinazionali sbarcano e impediscono ai sindacati di entrare nei posti di lavoro. Il paradosso è che la denuncia arrivi da Juma Kapuya, ministro del Lavoro e dell'impiego giovanile. I sindacati del suo paese sono troppo divisi per poter reagire allo strapotere delle imprese.
Già, e le imprese? Le imprese non vanno oltre il solito ritornello del "lasciateci lavorare". Il rappresentante della Tbd, la Confindustria del Belgio, trae addirittura un bilancio positivo: «Venti anni fa lo scenario non era quello di oggi e quindi vuol dire che abbiamo fatto progressi». Cosa c'è di positivo? Che la prospettiva di poter sfruttare il "dumping sociale" è ancora lunga. Il ruolo della politica, e dei governi, ormai è del tutto marginalizzato. Nessuno è più in grado di prendere una decisione prescrittiva e valida per tutti. E le imprese ci sguazzano. Basta avere qualche "governo amico", come nel caso della Polonia, new entry in Ue. Dal loro punto di vista c'è sviluppo sociale oggi, ma questa "fortuna" corrisponde a delocalizzazioni senza fine per il Vecchio continente. E per piegare ancora di più gli ultimi argini di resistenza del modello sociale europeo e attirare altri capitali praticano liberismo a mano bassa, come sulla direttiva sull'orario di lavoro.
A Juan Somavia direttore generale dell'Ilo non rimane che allargare le braccia, sconsolato. e per andare oltre la semplice proclamazione di principi, alcuni paesi come l'India preferiscono dar corso alle iniziative di microcredito. E' la vecchia idea del "trasformarsi in imprenditori di se stessi" invece di poter disporre di diritti come lavoratore. Somavia spende tutta la sua energia per rimettere al centro il «dialogo sociale». Non si risparmia però quando si tratta di evidenziare le contraddizioni del presente. «Riduciamo la povertà ma non le disuguaglianze, è arrivato il momento di discutere della qualità della crescita, come si sta facendo per la compatibilità ambientale». E l'Italia? Maurizio Sacconi preferisce disertare il confronto, delegando qualcun altro a leggere una sua breve dichiarazione. Il "lavoro indecente" che sta facendo contro i diritti dei lavoratori in Italia, del resto, non gli consentirebbe di dire cose interessanti. Stesso discorso per Vladimir Spidla, commissario europeo degli Affari sociali. La politica si ritira, piovono ancora pietre.
(Liberazione, 4 Luglio 2008)
sabato 5 luglio 2008
Europa, il ‘lavoro decente’ non ha più casa
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