da il Manifesto 30/01/2008
La primavera cominciò a gennaio
La primavera cominciò a gennaio
Tommaso Di Francesco
La Primavera di Praga è stata tra i più significativi avvenimenti del 1968. Fu un vasto movimento di rinnovamento delle forme del socialismo realizzato ad est, del partito e dello stato, per un «socialismo dal volto umano» che il leader comunista di quella stagione, Alexander Dubcek, voleva affermare con un «nuovo corso». E che fu stroncato il 21 agosto del 1968 dall'intervento militare del Patto di Varsavia. Un avvenimento decisivo anche per la sinistra italiana e per la storia di questo giornale. Infatti fu per l'editoriale «Praga è sola» uscito sul numero 4 della rivista Il Manifesto del settembre 1969 - che denunciava l'omertà e il silenzio del Partito comunista italiano sul dramma cecoslovacco a un anno dall'invasione - che il gruppo che aveva dato vita a quell'esperienza ancora interna al Pci, venne radiato con molti altri comunisti che a quella rivista facevano riferimento. A quarant' anni da quell'esperienza, ci saranno commemorazioni ufficiali e strumentali, del resto anche Berlusconi nel 2004 è andato a portare fiori sulla tomba di Jan Palach - un giovane che si era dato fuoco in piazza Venceslao per protestare contro Breznev per l'invasione e anche contro la guerra in Vietnam. A chi appartiene la memoria e insieme l'eredità della Primavera di Praga del 1968? A quel che resta della Sinistra che dovrebbe rivendicarne le ragioni, o al circo della politica, dal Partito democratico che ha messo in soffitta il socialismo, alle forze della destra, anche estrema? Di questo abbiamo voluto parlare con Luciano Antonetti, biografo di Dubcek, storico e traduttore di autori cechi e slovacchi tra i quali Karol Bartosek, Jiri e Milos Hajek, Michal Reiman, Josef Macek, Karel Kaplan (questi ultimi due usciti in Italia in prima mondiale). Ha curato e tradotto l'autobiografia di Dubcek, che conobbe direttamente negli anni Sessanta e che ebbe il privilegio di accompagnare all'Università di Bologna nel 1988 a ricevere la laurea honoris causa che lo riabilitò ufficialmente nel mondo.
Nell'intervista del gennaio 1988 su l'Unità, Alexandr Dubcek raccontò che tra i motivi che fecero maturare quella scelta c'era l'insopportabile surroga di ogni potere statale da parte del partito. Quella Primavera in realtà si affermò a gennaio. Che accadde e quanto era popolare la voglia di cambiare questa subalternità della vita reale e istituzionale del paese a quella del partito, anzi del solo partito comunista cecoslovacco?
Si capì rapidamente che non era una semplice sostituzione di uomini la decisione del Comitato centrale dei comunisti cecoslovacchi presa il 5 gennaio 1968, di separare le cariche di presidente della Repubblica e di primo segretario del partito, funzione alla quale fu eletto Alexander Dubcek, mentre Antonin Novotny restava - ma soltanto per un paio di mesi ancora - alla testa dello Stato. Una serie di provvedimenti che seguirono a ruota (ingresso di volti nuovi negli organismi dirigenti di partito a ogni livello, sostituzioni nelle cariche direttive delle istituzioni e delle organizzazioni di massa compresi i sindacati, avvio dell'elaborazione di un Programma d'azione che fu reso pubblico in aprile, quasi contemporaneamente alla costituzione di un nuovo governo) fecero dire a molti che in Cecoslovacchia quell'anno la primavera era cominciata in gennaio. Sembrava ormai alle spalle il lungo periodo di crisi che era cominciato subito dopo il 1960, dapprima sul terreno economico, con l'esaurimento del modello estensivo di sviluppo, con il fallimento della pianificazione centralizzata e totale, che si era poi ampliato, investendo la cultura e il rapporto tra gli intellettuali e il partito e la società tutta. Quanto la voglia di cambiamento fosse diffusa lo dimostrano le grandi assemblee popolari che si svolsero nei grandi e nei piccoli centri, le riunioni e i documenti votati nelle assemblee in fabbrica e in ogni luogo di lavoro. I cittadini interrogavano deputati, esponenti di partito, scrittori, filosofi, cineasti, chiedevano la riabilitazione delle vittime dei tanti processi politici che per lunghi anni avevano distrutto vite e fiaccato coscienze. Particolarmente attivi furono i giornali, la radio, la televisione, tanto che ben presto si dovette abolire la censura. Il senso del mutamento era quello espresso, del resto, nel Programma d'azione: maggiore democrazia e libertà proprio per rafforzare il socialismo e far riconquistare al paese, anche in politica estera, la funzione che gli spettava nei rapporti internazionali. Non fu per caso che crebbe costantemente il numero degli iscritti al partito comunista e agli altri partiti fino ad allora formalmente esistenti. Com'era naturale, i giovani erano in prima fila, dappertutto, nei partiti come nelle organizzazioni già esistenti e in quelle che si costituivano o che si voleva far nascere o rinascere. A migliaia affollavano le assemblee che si tennero a Praga, a Bratislava e altrove, erano loro gli animatori dei capannelli che la sera si riunivano per discutere nelle strade e nelle piazze delle città e dei paesi del presente, del passato, del futuro. È sufficiente gettare uno sguardo sulle foto uscite anche in Occidente del corteo del 1° maggio per vedere con quanto entusiasmo e con quale allegria i giovani in particolare respiravano l'aria nuova che circolava nel paese.
Il 21 agosto '68 la Primavera venne repressa dai carri armati del Patto di Varsavia. Quanto pesarono anche l'isolamento internazionale e i limiti interni?
Anzitutto va detto che senza l'intervento di ben cinque eserciti dei paesi invasori - Unione sovietica, Polonia, Ungheria, Bulgaria e Germania dell'Est - la Primavera cecoslovacca non sarebbe finita in quel modo. Cinque «alleati» del Patto di Varsavia, contraddicendo la lettera e lo spirito del patto di alleanza, misero in campo 600.000 uomini, artiglieria a non finire, migliaia di aerei e di carri armati: l'esercito più imponente mai visto dalla fine della seconda guerra mondiale. Imposero, con la permanenza di forti contingenti armati, con una nuova direzione del partito e dello Stato la fine di qualsiasi tentativo di riforma e svuotarono di senso le modifiche già apportate come, per esempio, la federalizzazione della repubblica e la parità di diritti tra cechi e slovacchi, e il riconoscimento di diritti alle altre minoranze nazionali, la riabilitazione delle vittime dei processi celebrati negli anni 1948-1954. Vi fu isolamento internazionale? Senz'altro. L'ambasciatore sovietico a Washington avvertì gli Stati uniti dell'invasione, ma a parte la convocazione del Consiglio nazionale di sicurezza e qualche lacrima versata in sede Onu, con i loro alleati, sulla «libertà calpestata» gli americani non si spinsero oltre. Tra i partiti comunisti del mondo, tra gli oppositori più decisi si trovarono l'italiano e il francese, ma se questo mutò presto opinione, il primo non poteva fare altro che chiedere, inascoltato, la fine della presenza militare e il ristabilimento della sovranità cecoslovacca. Circolava la voce di un giudizio sprezzante, che sarebbe stato espresso da Breznev. A chi gli faceva notare come l'invasione pregiudicasse la lotta dei comunisti italiani per il socialismo, avrebbe risposto: «Ne riparleremo fra cinquant'anni; quando ci sarà il socialismo in Italia». Non si può dimenticare che quasi da subito ebbe inizio l'opposizione aperta di una serie di dirigenti comunisti dei paesi futuri invasori. Cominciò Breznev, in febbraio, con la censura imposta a un discorso di Dubcek per il XX anniversario del febbraio 1948. In marzo i cecoslovacchi furono invitati a Dresda e qui messi sotto accusa perché incapaci di contrastare la «controrivoluzione strisciante» che a loro giudizio avanzava nel paese. La stampa sovietica e degli altri paesi che poi intervennero a strangolare la «Primavera» pubblicò articoli su articoli di critica al Programma d'azione, ma non una parola di quel documento. Mosca, infine, organizzò il complotto che sfociò nella lettera d'invito firmata da Bilak, Indra e pochi altri esponenti, spacciata poi dai sovietici come «invito a intervenire militarmente per impedire il ritorno della Cecoslovacchia» alla repubblica d'anteguerra. Certo vi furono limiti interni, come hanno riconosciuto gli stessi protagonisti, a cominciare da Dubcek. Si trattò, sostanzialmente, di un processo che avviato dall'alto fu poi sollecitato a procedere con maggiore speditezza da ampi strati di popolazione. Vi furono - ma era normale dialettica democratica - confronti accesi ed estremismi. Ma a giudizio degli attori principali e della maggioranza degli osservatori erano fenomeni dovuti alla quantità e gravità dei guasti da riparare e al grande ritardo con il quale ci si era messi su quella strada. Un limite che si rivelò invalicabile, infine, fu la spaccatura avutasi nel gruppo che, all'unanimità, aveva avviato le trasformazioni. Non ci furono solo le preoccupazioni di quanti temevano per i loro posti e privilegi; non mancarono tentativi di presentarsi come «salvatori della patria». Un esempio: Gustav Husak, nei giorni dell'invasione aveva dichiarato di essere con Dubcek e disposto a cadere con lui, nell'aprile 1969 accettò l'investitura dei sovietici a sostituirlo e ad avviare il paese su una «normalizzazione» che significò ritorno alla passività politica dei cittadini e scadimento della moralità generale.
Dopo l'89 e la caduta della speranza di Gorbaciov per una trasformazione positiva dell'Urss, ora che non esiste più l'esperienza originale della Cecoslovacchia, tagliata in due paesi, è attuale quella stagione di trasformazioni, pure fallite, o no?
Sull'attualità di quella stagione la risposta non può essere univoca. Abbiamoa bisogno dell'utopia, per non scadere nella demoralizzazione, nello sconforto assoluto. Ma il sogno deve essere sognato con gli occhi aperti: che le società odierne vanno cambiate nessuno ne dubita, la qualità del cambiamento deve essere imposta da una volontà diffusa, la necessità deve essere brandita da chi ha la capacità di rifarsi ai migliori esempi del passato - e la Primavera cecoslovacca del '68 è tra questi - e di additare una strada percorribile alle nuove generazioni.
Nell'intervista del gennaio 1988 su l'Unità, Alexandr Dubcek raccontò che tra i motivi che fecero maturare quella scelta c'era l'insopportabile surroga di ogni potere statale da parte del partito. Quella Primavera in realtà si affermò a gennaio. Che accadde e quanto era popolare la voglia di cambiare questa subalternità della vita reale e istituzionale del paese a quella del partito, anzi del solo partito comunista cecoslovacco?
Si capì rapidamente che non era una semplice sostituzione di uomini la decisione del Comitato centrale dei comunisti cecoslovacchi presa il 5 gennaio 1968, di separare le cariche di presidente della Repubblica e di primo segretario del partito, funzione alla quale fu eletto Alexander Dubcek, mentre Antonin Novotny restava - ma soltanto per un paio di mesi ancora - alla testa dello Stato. Una serie di provvedimenti che seguirono a ruota (ingresso di volti nuovi negli organismi dirigenti di partito a ogni livello, sostituzioni nelle cariche direttive delle istituzioni e delle organizzazioni di massa compresi i sindacati, avvio dell'elaborazione di un Programma d'azione che fu reso pubblico in aprile, quasi contemporaneamente alla costituzione di un nuovo governo) fecero dire a molti che in Cecoslovacchia quell'anno la primavera era cominciata in gennaio. Sembrava ormai alle spalle il lungo periodo di crisi che era cominciato subito dopo il 1960, dapprima sul terreno economico, con l'esaurimento del modello estensivo di sviluppo, con il fallimento della pianificazione centralizzata e totale, che si era poi ampliato, investendo la cultura e il rapporto tra gli intellettuali e il partito e la società tutta. Quanto la voglia di cambiamento fosse diffusa lo dimostrano le grandi assemblee popolari che si svolsero nei grandi e nei piccoli centri, le riunioni e i documenti votati nelle assemblee in fabbrica e in ogni luogo di lavoro. I cittadini interrogavano deputati, esponenti di partito, scrittori, filosofi, cineasti, chiedevano la riabilitazione delle vittime dei tanti processi politici che per lunghi anni avevano distrutto vite e fiaccato coscienze. Particolarmente attivi furono i giornali, la radio, la televisione, tanto che ben presto si dovette abolire la censura. Il senso del mutamento era quello espresso, del resto, nel Programma d'azione: maggiore democrazia e libertà proprio per rafforzare il socialismo e far riconquistare al paese, anche in politica estera, la funzione che gli spettava nei rapporti internazionali. Non fu per caso che crebbe costantemente il numero degli iscritti al partito comunista e agli altri partiti fino ad allora formalmente esistenti. Com'era naturale, i giovani erano in prima fila, dappertutto, nei partiti come nelle organizzazioni già esistenti e in quelle che si costituivano o che si voleva far nascere o rinascere. A migliaia affollavano le assemblee che si tennero a Praga, a Bratislava e altrove, erano loro gli animatori dei capannelli che la sera si riunivano per discutere nelle strade e nelle piazze delle città e dei paesi del presente, del passato, del futuro. È sufficiente gettare uno sguardo sulle foto uscite anche in Occidente del corteo del 1° maggio per vedere con quanto entusiasmo e con quale allegria i giovani in particolare respiravano l'aria nuova che circolava nel paese.
Il 21 agosto '68 la Primavera venne repressa dai carri armati del Patto di Varsavia. Quanto pesarono anche l'isolamento internazionale e i limiti interni?
Anzitutto va detto che senza l'intervento di ben cinque eserciti dei paesi invasori - Unione sovietica, Polonia, Ungheria, Bulgaria e Germania dell'Est - la Primavera cecoslovacca non sarebbe finita in quel modo. Cinque «alleati» del Patto di Varsavia, contraddicendo la lettera e lo spirito del patto di alleanza, misero in campo 600.000 uomini, artiglieria a non finire, migliaia di aerei e di carri armati: l'esercito più imponente mai visto dalla fine della seconda guerra mondiale. Imposero, con la permanenza di forti contingenti armati, con una nuova direzione del partito e dello Stato la fine di qualsiasi tentativo di riforma e svuotarono di senso le modifiche già apportate come, per esempio, la federalizzazione della repubblica e la parità di diritti tra cechi e slovacchi, e il riconoscimento di diritti alle altre minoranze nazionali, la riabilitazione delle vittime dei processi celebrati negli anni 1948-1954. Vi fu isolamento internazionale? Senz'altro. L'ambasciatore sovietico a Washington avvertì gli Stati uniti dell'invasione, ma a parte la convocazione del Consiglio nazionale di sicurezza e qualche lacrima versata in sede Onu, con i loro alleati, sulla «libertà calpestata» gli americani non si spinsero oltre. Tra i partiti comunisti del mondo, tra gli oppositori più decisi si trovarono l'italiano e il francese, ma se questo mutò presto opinione, il primo non poteva fare altro che chiedere, inascoltato, la fine della presenza militare e il ristabilimento della sovranità cecoslovacca. Circolava la voce di un giudizio sprezzante, che sarebbe stato espresso da Breznev. A chi gli faceva notare come l'invasione pregiudicasse la lotta dei comunisti italiani per il socialismo, avrebbe risposto: «Ne riparleremo fra cinquant'anni; quando ci sarà il socialismo in Italia». Non si può dimenticare che quasi da subito ebbe inizio l'opposizione aperta di una serie di dirigenti comunisti dei paesi futuri invasori. Cominciò Breznev, in febbraio, con la censura imposta a un discorso di Dubcek per il XX anniversario del febbraio 1948. In marzo i cecoslovacchi furono invitati a Dresda e qui messi sotto accusa perché incapaci di contrastare la «controrivoluzione strisciante» che a loro giudizio avanzava nel paese. La stampa sovietica e degli altri paesi che poi intervennero a strangolare la «Primavera» pubblicò articoli su articoli di critica al Programma d'azione, ma non una parola di quel documento. Mosca, infine, organizzò il complotto che sfociò nella lettera d'invito firmata da Bilak, Indra e pochi altri esponenti, spacciata poi dai sovietici come «invito a intervenire militarmente per impedire il ritorno della Cecoslovacchia» alla repubblica d'anteguerra. Certo vi furono limiti interni, come hanno riconosciuto gli stessi protagonisti, a cominciare da Dubcek. Si trattò, sostanzialmente, di un processo che avviato dall'alto fu poi sollecitato a procedere con maggiore speditezza da ampi strati di popolazione. Vi furono - ma era normale dialettica democratica - confronti accesi ed estremismi. Ma a giudizio degli attori principali e della maggioranza degli osservatori erano fenomeni dovuti alla quantità e gravità dei guasti da riparare e al grande ritardo con il quale ci si era messi su quella strada. Un limite che si rivelò invalicabile, infine, fu la spaccatura avutasi nel gruppo che, all'unanimità, aveva avviato le trasformazioni. Non ci furono solo le preoccupazioni di quanti temevano per i loro posti e privilegi; non mancarono tentativi di presentarsi come «salvatori della patria». Un esempio: Gustav Husak, nei giorni dell'invasione aveva dichiarato di essere con Dubcek e disposto a cadere con lui, nell'aprile 1969 accettò l'investitura dei sovietici a sostituirlo e ad avviare il paese su una «normalizzazione» che significò ritorno alla passività politica dei cittadini e scadimento della moralità generale.
Dopo l'89 e la caduta della speranza di Gorbaciov per una trasformazione positiva dell'Urss, ora che non esiste più l'esperienza originale della Cecoslovacchia, tagliata in due paesi, è attuale quella stagione di trasformazioni, pure fallite, o no?
Sull'attualità di quella stagione la risposta non può essere univoca. Abbiamoa bisogno dell'utopia, per non scadere nella demoralizzazione, nello sconforto assoluto. Ma il sogno deve essere sognato con gli occhi aperti: che le società odierne vanno cambiate nessuno ne dubita, la qualità del cambiamento deve essere imposta da una volontà diffusa, la necessità deve essere brandita da chi ha la capacità di rifarsi ai migliori esempi del passato - e la Primavera cecoslovacca del '68 è tra questi - e di additare una strada percorribile alle nuove generazioni.
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