di Massimo Zucchetti *
su Il Manifesto del 18/11/2007
* Massimo Zucchetti, è docente di impianti nucleari al Politecnico di Torino e collabora con numerosi istituti internazionali. Tra le sue ricerche spiccano le analisi sugli effetti dell'uso dell'uranio impoverito sui teatri di guerra. Su questo e altri temi collegati ha pubblicato diversi articoli sul nostro giornale.
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Si è recentemente molto parlato, in Italia, del ritorno all'energia nucleare, anche a breve termine: gli ultimi risultati degli studi sui cambiamenti climatici e la corsa del prezzo del petrolio hanno pesantemente soffiato sul fuoco di chi ripone nel nucleare qualche speranza come fonte energetica del prossimo futuro. Questa fonte - affermano i suoi sostenitori - potrebbe rappresentare, nel breve termine, una possibile soluzione al problema energetico mondiale, soprattutto in considerazione della sua bassissima emissione di gas serra e dell'esaurimento delle fonti energetiche fossili. Come minimo, l'energia nucleare potrebbe secondo costor essere una soluzione-ponte, in attesa del pieno sviluppo delle energie rinnovabili, ancora afflitte da molti problemi di crescita.
Se però guardiamo alla situazione italiana, vediamo che il know-how sul nucleare nel nostro paese è in uno stato semi-comatoso, dopo gli esiti del referendum del 1987, che segnò di fatto l'uscita dal nucleare dell'Italia. Molte università italiane hanno da allora riconvertito il loro corso di laurea in Ingegneria Nucleare in altre specializzazioni, quali ad esempio l'Ingegneria Energetica.
I problemi che affliggevano in passato l'energia da fissione nucleare permangono anche oggi: a partire dal problema delle scorie e del loro smaltimento, che lascia un'eredità pesante alle future generazioni. Non meno importante è il problema della sicurezza, sebbene la distanza fra un reattore della prossima generazione e un impianto tipo Chernobyl sia indubbiamente molto marcata.
Le ragioni del fallimento del nucleare e delle grandi difficoltà a livello di accettazione da parte dell'opinione pubblica non sono soltanto queste: oltre ai problemi deldi scorie e sicurezza vi è la pesante parentela fra nucleare civile e nucleare militare. Molte delle tecnologie indispensabili per il nucleare civile hanno infatti un dual use, sono cioè utilizzabili anche a scopi militari: parliamo del processo di arricchimento del combustibile - dal quale si può ricavare l'Uranio-235 per una bomba atomica stile Hiroshima - e della fase di riprocessamento del combustibile esaurito, dalla quale è possibile ricavare del plutonio, per una bomba stile Nagasaki. L'Agenzia Atomica Internazionale (Aie) vigila contro il pericolo della proliferazione nucleare, cioè l'acquisizione di tecnologie nucleari militari da parte di nuovi paesi: tuttavia gli esempi di India, Pakistan e Corea del Nord indicano come questo pericolo sia sempre attuale.
Anche per quanto riguarda l'uso militare dell'«uranio impoverito» l'industria nucleare non è davvero esente da colpe. L'uranio impoverito è infatti disponibile in grandi quantità e a costi praticamente nulli, in quanto è un sottoprodotto del ciclo del combustibile nucleare civile, ed in particolare del processo di arricchimento. Il suo concorrente diretto, il tungsteno, ha le stesse proprietà balistiche, ma costa cento volte di più: di qui la preferenza verso un materiale radioattivo per questo tipo di armi, in spregio a qualsiasi norma di sicurezza (che prevede sempre il ricorso a valide alternative prive di radioattività ogni volta che ciò sia possibile).
Ma sappiamo che le spinte alla riapertura del discorso sull'energia nucleare, già fortissime, cresceranno. Le crescenti difficoltà di rifornimento energetico sul fronte dei combustibili fossili (petrolio e gas) potrebbero presto diventare la facile occasione per imporre in modo irresistibile all'opinione pubblica - basterebbero forse due o tre giorni di blackout - una revisione delle scelte imposte col referendum. In tal caso, sarebbe bene sapere che non esiste un solo tipo di nucleare. E che, almeno a sinistra, si riuscisse a distinguere tra l'attuale nucleare a fissione, basato sull'uranio, e i reattori a fusione termonucleare, in cui viene riprodotta in laboratorio la stessa fonte energetica che si trova sul sole.
Anche in questo campo c'è una differenza sostanziale fra reattori a fusione più o meno puliti e quei progetti in corso che prevedono l'utilizzo ed il bruciamento di trizio, un isotopo radioattivo rilevante anche per la proliferazione nucleare. Esiste infatti - fra quelli a fusione - un reattore che brucia combustibile non radioattivo, ovvero del tipo a deuterio-elio-tre. Si tratta di macchine che, opportunamente regolate, produrrebbero piccolissime quantità di scorie radioattive, tutte a vita media particolarmente breve e pertanto molto meno pericolose di quelle dei reattori a fissione. Contrariamente a questi ultimi, poi, avrebbero delle doti di sicurezza intrinseca e passiva che dovrebbero scongiurare incidenti con rilascio di materiale radioattivo nell'ambiente. Infine, i reattori a deuterio-elio-tre utilizzerebbero tecnologie non rilevanti ai fini della proliferazione nucleare, cioè non utilizzabili per fabbricare bombe atomiche.
Uno studioso italiano, ora professore al Mit di Boston, il prof. Bruno Coppi, ha proposto da alcuni anni un esperimento chiamato Ignitor, che potrebbe costituire un primo passo verso lo sviluppo della fusione nucleare pulita: si tratta di una macchina ad alto campo magnetico e dalle dimensioni contenute, del tipo «tokamak»; ovvero un'evoluzione di macchine sperimentali già in funzione sia presso il Mit di Boston che l'Enea di Frascati. E' un esperimento dal costo relativamente limitato, che permetterebbe all'Italia di porsi all'avanguardia nel mondo per gli studi sulla fusione nucleare pulita. Su progetti come questo - a nostro parere - avrebbe senso concentrare gli sforzi di una futura ricerca nucleare di segno diametralmente opposto a quelle militari-conservatrici.
martedì 20 novembre 2007
Si fa presto a dire «nucleare»
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