Daniela Preziosi
da il Manifesto 4/11/2007
«Alcune modifiche andranno fatte», taglia corto Guido Calvi. Il senatore pd è vicepresidente della commissione Affari costituzionali che da martedì trasformerà in legge il decreto sulle espulsioni facili. Materia incandescente, che rischia di imbrogliarsi con i precari equilibri del senato sulla finanziaria, che a sua volta dovrà essere licenziata da Palazzo Madama entro metà novembre. «Spallate» berlusconiane permettendo.
L'avvocato Calvi non va oltre, ma dice l'essenziale: così com'è il decreto non va bene. Nella giornata di ieri, è stato il massimo dissenso espresso dall'area del partitone democratico. Il disagio nei confronti dell'accelerazione impressa al pacchetto sicurezza da Walter Veltroni ha i suoi più autorevoli esponenti nel cuore del governo - il ministro degli Esteri Massimo D'Alema, che ha sfiorato la crisi diplomatica con la Romania -. Ma nessuno osa alzare la voce. Anche il combattivo drappello dei garantisti questa volta tace, fatta eccezione per l'intervento di Stefano Rodotà ieri su Repubblica. Il punto, per tutti, è capire quale maggioranza approverà il decreto. Se quella traballante dell'Unione, con la solita differenza di misura al senato. Oppure una «di nuovo conio», composta dal 65 per cento del centrosinistra e l'85 della Cdl. Scaricando, solo per l'occasione, la sinistra che si sta orientando a una sostanziosa «campagna di emendamenti».
Per il Pdci ieri la senatrice Manuela Palermi rifletteva amaramente sulla caccia al rumeno scatenata nella capitale. Quanto al decreto, diceva di non averlo ancora letto. «Ma è chiaro che per nessun motivo può essere violata la civiltà giuridica di un paese». Rifondazione, che a Palazzo Madama ha 26 senatori, ufficialmente non ha ancora preso una posizione. Il ministro Ferrero ha votato sì allo stralcio, ma già invoca un emendamento «contro il razzismo». Il segretario Franco Giordano, in questi giorni all'estero, non parlerà fino a martedì quando riunirà la segreteria. Al momento il partito è diviso: la linea del sì al decreto, ispirata a Fausto Bertinotti e a Nichi Vendola, che al manifesto ha dichiarato: «se fossi parlamentare emenderei il decreto ma alla fine lo voterei». E quella del no o, meglio, del sì solo a patto di importanti emendamenti. Il capofila è il senatore Giovanni Russo Spena, capogruppo al senato. Per lui il decreto così com'è «è inaccettabile». Per renderlo votabile i cambiamenti da fare sono almeno due: primo, limitare l'eccessivo potere discrezionale dei prefetti. «La conseguenza sarebbe una totale disparità di trattamento e la fine del principio dell'uguaglianza di fronte alla legge». Secondo, evitare di spalancare le porte «a vere e proprie deportazioni di massa» procedendo «con una casistica tanto vasta e vaga quanto quella prevista nel decreto». D'altro canto l'ipotesi di accettare i voti della Cdl, condizionati a un peggioramento del decreto «non si può neppure prendere in considerazione». In ogni caso «i principi e i valori sono molto più forti del contesto politico. Con quello che succede nella maggioranza - ragiona - perché dovrei farmi il problema di accettare l'istituzionalizzazione del razzismo?». Posizione personale, specifica, ma condivisa da molti parlamentari Prc. E da quasi tutti i senatori.
I diarchi Prodi e Veltroni dovranno scegliere: o rendere più costituzionale e mite il decreto, blindando la maggioranza. Oppure sottoporsi alle forche caudine del centrodestra, accettando la contromanovra Fini-Matteoli: ribadire la vigenza della legge Bossi-Fini sul divieto d'ingresso a chi non ha un lavoro e una casa. Questione di gusti. La votazione «a maggioranza variabile» potrebbe persino non essere un fatto drammatico, soprattutto se cadesse dopo l'approvazione della manovra al senato. A quel punto la tenuta del governo non sarebbe in discussione. Come la prenderebbe l'elettorato dell'Unione, sarebbe un'altra storia.
da il Manifesto 4/11/2007
«Alcune modifiche andranno fatte», taglia corto Guido Calvi. Il senatore pd è vicepresidente della commissione Affari costituzionali che da martedì trasformerà in legge il decreto sulle espulsioni facili. Materia incandescente, che rischia di imbrogliarsi con i precari equilibri del senato sulla finanziaria, che a sua volta dovrà essere licenziata da Palazzo Madama entro metà novembre. «Spallate» berlusconiane permettendo.
L'avvocato Calvi non va oltre, ma dice l'essenziale: così com'è il decreto non va bene. Nella giornata di ieri, è stato il massimo dissenso espresso dall'area del partitone democratico. Il disagio nei confronti dell'accelerazione impressa al pacchetto sicurezza da Walter Veltroni ha i suoi più autorevoli esponenti nel cuore del governo - il ministro degli Esteri Massimo D'Alema, che ha sfiorato la crisi diplomatica con la Romania -. Ma nessuno osa alzare la voce. Anche il combattivo drappello dei garantisti questa volta tace, fatta eccezione per l'intervento di Stefano Rodotà ieri su Repubblica. Il punto, per tutti, è capire quale maggioranza approverà il decreto. Se quella traballante dell'Unione, con la solita differenza di misura al senato. Oppure una «di nuovo conio», composta dal 65 per cento del centrosinistra e l'85 della Cdl. Scaricando, solo per l'occasione, la sinistra che si sta orientando a una sostanziosa «campagna di emendamenti».
Per il Pdci ieri la senatrice Manuela Palermi rifletteva amaramente sulla caccia al rumeno scatenata nella capitale. Quanto al decreto, diceva di non averlo ancora letto. «Ma è chiaro che per nessun motivo può essere violata la civiltà giuridica di un paese». Rifondazione, che a Palazzo Madama ha 26 senatori, ufficialmente non ha ancora preso una posizione. Il ministro Ferrero ha votato sì allo stralcio, ma già invoca un emendamento «contro il razzismo». Il segretario Franco Giordano, in questi giorni all'estero, non parlerà fino a martedì quando riunirà la segreteria. Al momento il partito è diviso: la linea del sì al decreto, ispirata a Fausto Bertinotti e a Nichi Vendola, che al manifesto ha dichiarato: «se fossi parlamentare emenderei il decreto ma alla fine lo voterei». E quella del no o, meglio, del sì solo a patto di importanti emendamenti. Il capofila è il senatore Giovanni Russo Spena, capogruppo al senato. Per lui il decreto così com'è «è inaccettabile». Per renderlo votabile i cambiamenti da fare sono almeno due: primo, limitare l'eccessivo potere discrezionale dei prefetti. «La conseguenza sarebbe una totale disparità di trattamento e la fine del principio dell'uguaglianza di fronte alla legge». Secondo, evitare di spalancare le porte «a vere e proprie deportazioni di massa» procedendo «con una casistica tanto vasta e vaga quanto quella prevista nel decreto». D'altro canto l'ipotesi di accettare i voti della Cdl, condizionati a un peggioramento del decreto «non si può neppure prendere in considerazione». In ogni caso «i principi e i valori sono molto più forti del contesto politico. Con quello che succede nella maggioranza - ragiona - perché dovrei farmi il problema di accettare l'istituzionalizzazione del razzismo?». Posizione personale, specifica, ma condivisa da molti parlamentari Prc. E da quasi tutti i senatori.
I diarchi Prodi e Veltroni dovranno scegliere: o rendere più costituzionale e mite il decreto, blindando la maggioranza. Oppure sottoporsi alle forche caudine del centrodestra, accettando la contromanovra Fini-Matteoli: ribadire la vigenza della legge Bossi-Fini sul divieto d'ingresso a chi non ha un lavoro e una casa. Questione di gusti. La votazione «a maggioranza variabile» potrebbe persino non essere un fatto drammatico, soprattutto se cadesse dopo l'approvazione della manovra al senato. A quel punto la tenuta del governo non sarebbe in discussione. Come la prenderebbe l'elettorato dell'Unione, sarebbe un'altra storia.
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