da il Manifesto 5/10/2007
Nicola Nicolosi*
La riduzione delle tasse (sul lavoro) come asse delle politiche redistributive sembra un'affermazione quasi di buon senso, ma nasconde una visione dell'intervento pubblico allarmante. Si presuppone che il mercato operi in regime di perfetta concorrenza, in cui il fisco registra la base imponibile (minima per alcune categorie) e su di essa determina un'aliquota proporzionale e/o progressiva. Ai più sfugge che il fisco «registra» il reddito soggetto a tassazione. Il Governo può modificare la base imponibile attraverso la deduzione e la detrazione; può tassare in modo diverso redditi diversi. Nulla di più. L'esito finale, se tutto è «trasparente», è quello di un fisco «neutrale» per le imprese e l'equità fiscale. Giust'appunto equità fiscale, non distribuzione di reddito. Il fisco, come sostengono tutti gli economisti pubblici, ma anche i tributaristi, è cieco. Non si può chiedere al fisco di fare quello per cui non è attrezzato: distribuzione reddito. Le tasse sono, in definitiva, la modalità con cui lo stato finanzia le proprie attività al fine di «rispondere» ai «fallimenti» del mercato e per particolari obiettivi (sociali e/o industriali). Quindi le tasse sono qualcosa di diverso da quello che «troppi» sostengono; non sono uno strumento per aumentare la competitività; non sono lo strumento per ridistribuire reddito. Ma l'idea che attraverso la riduzione del carico fiscale sul lavoro dipendente sia possibile fare distribuzione continua a fare proseliti, delineando uno scenario di egoismo e di ribellione contro lo Stato e la cosa pubblica.
I fattori di produzione dovrebbero «beneficiare» della crescita del Pil, e la politica dei redditi dovrebbe agire tra «il processo di formazione del reddito» (Pil) e «la remunerazione dei fattori di produzione». Il fisco e le imposte «registrano» il reddito imponibile e lo tassano sulla base alla capacità contributiva. Ecco perché il fisco, inteso come tasse, non può realizzare distribuzione del reddito. Non a caso l'art.3 della Costituzione «La Repubblica rimuove i vincoli di ordine economico, politico e sociale». Esplicitamente l'art. 3 suggerisce degli interventi sul mercato da parte della pubblica amministrazione. Diversamente non si comprenderebbe l'art. 42 della Costituzione: «la proprietà è pubblica e privata».
In questo senso occorre adeguare il dibattito sui tributi. Infatti, i tributi si sono sempre adattati ai modi di produzione e agli assetti patrimoniali emergenti dell'evoluzione economica della società. Se nel periodo «industriale» le imposte sui redditi da lavoro hanno affiancato e superato di importanza le imposte sulla rendita finanziaria, oggi si apre una discussione su quale debba essere il nuovo equilibrio tra i diversi redditi.
L'attuale sperequata distribuzione del reddito dell'Italia è il frutto della struttura produttiva che non contribuisce ad ampliare il reddito del Paese da un lato, e lo polarizza alle code dall'altro. Quindi è nel mercato che si deve intervenire. Nel corso degli ultimi anni l'Italia è stata attraversata da norme che a monte dei provvedimenti fiscali hanno consegnato al paese redditi da lavoro non solo bassi, ma anche saltuari. Veramente qualcuno pensa che attraverso il fisco sia possibile dare una risposta a queste persone, per lo più giovani e donne?
Per invertire la polarizzazione del reddito occorre agire nel mercato attraverso misure europee. Diversamente non si spiegherebbe l'attuale distribuzione del reddito dell'Italia comparata a quella europea, e assicuro che il fisco italiano non è poi così diverso da quello di altri stati. Negli ultimi 25 anni la quota di reddito destinata al lavoro dipendente è passata dal 51% a 41% del Pil dei nostri tempi. Si è prodotto un enorme trasferimento di ricchezza dai salari, alle rendite e profitti. In Italia si pone una grande emergenza salariale, e non può essere confusa con il ruolo del fisco. Per la Banca d'Italia il reddito da lavoro dipendente è passato dal 43,7% del Pil nel 1993 al 40,7% del 2004, mentre in Europa rimane costantemente prossimo al 50% del Pil. È del tutto evidente che senza politiche contrattuali adeguate, un sindacato capace di «strappare» quote di produttività realizzato dalle imprese nel marcato, l'attuale polarizzazione del reddito può solo accentuarsi e a nulla possono le politiche fiscali.
Le proposte di intervento fiscale sul lavoro, penso anche alla riduzione degli oneri sugli straordinari presente nel protocollo, nascondono qualcosa di più grave: il Paese sembra avere rinunciato al lavoro come «fonte» del suo benessere e del suo sviluppo, oltre che per la realizzazione del diritto di cittadinanza.
*Coordinatore nazionale di Lavoro e società-Cgil
I fattori di produzione dovrebbero «beneficiare» della crescita del Pil, e la politica dei redditi dovrebbe agire tra «il processo di formazione del reddito» (Pil) e «la remunerazione dei fattori di produzione». Il fisco e le imposte «registrano» il reddito imponibile e lo tassano sulla base alla capacità contributiva. Ecco perché il fisco, inteso come tasse, non può realizzare distribuzione del reddito. Non a caso l'art.3 della Costituzione «La Repubblica rimuove i vincoli di ordine economico, politico e sociale». Esplicitamente l'art. 3 suggerisce degli interventi sul mercato da parte della pubblica amministrazione. Diversamente non si comprenderebbe l'art. 42 della Costituzione: «la proprietà è pubblica e privata».
In questo senso occorre adeguare il dibattito sui tributi. Infatti, i tributi si sono sempre adattati ai modi di produzione e agli assetti patrimoniali emergenti dell'evoluzione economica della società. Se nel periodo «industriale» le imposte sui redditi da lavoro hanno affiancato e superato di importanza le imposte sulla rendita finanziaria, oggi si apre una discussione su quale debba essere il nuovo equilibrio tra i diversi redditi.
L'attuale sperequata distribuzione del reddito dell'Italia è il frutto della struttura produttiva che non contribuisce ad ampliare il reddito del Paese da un lato, e lo polarizza alle code dall'altro. Quindi è nel mercato che si deve intervenire. Nel corso degli ultimi anni l'Italia è stata attraversata da norme che a monte dei provvedimenti fiscali hanno consegnato al paese redditi da lavoro non solo bassi, ma anche saltuari. Veramente qualcuno pensa che attraverso il fisco sia possibile dare una risposta a queste persone, per lo più giovani e donne?
Per invertire la polarizzazione del reddito occorre agire nel mercato attraverso misure europee. Diversamente non si spiegherebbe l'attuale distribuzione del reddito dell'Italia comparata a quella europea, e assicuro che il fisco italiano non è poi così diverso da quello di altri stati. Negli ultimi 25 anni la quota di reddito destinata al lavoro dipendente è passata dal 51% a 41% del Pil dei nostri tempi. Si è prodotto un enorme trasferimento di ricchezza dai salari, alle rendite e profitti. In Italia si pone una grande emergenza salariale, e non può essere confusa con il ruolo del fisco. Per la Banca d'Italia il reddito da lavoro dipendente è passato dal 43,7% del Pil nel 1993 al 40,7% del 2004, mentre in Europa rimane costantemente prossimo al 50% del Pil. È del tutto evidente che senza politiche contrattuali adeguate, un sindacato capace di «strappare» quote di produttività realizzato dalle imprese nel marcato, l'attuale polarizzazione del reddito può solo accentuarsi e a nulla possono le politiche fiscali.
Le proposte di intervento fiscale sul lavoro, penso anche alla riduzione degli oneri sugli straordinari presente nel protocollo, nascondono qualcosa di più grave: il Paese sembra avere rinunciato al lavoro come «fonte» del suo benessere e del suo sviluppo, oltre che per la realizzazione del diritto di cittadinanza.
*Coordinatore nazionale di Lavoro e società-Cgil
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